Lacci di Domenico Starnone è un viaggio nella famiglia italiana, alla scoperta di un mondo che in superficie appare calmo e che, invece, negli abissi cela una tempesta.
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Allacciarsi le scarpe è un atto semplice, se vogliamo scontato, che si impara da piccoli e che non si dimentica più. Un gesto banale, dunque, ma che può unire, riallacciare rapporti laschi, riavvicinando persone anche molto distanti.
È quello che succede ai protagonisti di Lacci di Domenico Starnone. Scritto nel 2014 e pubblicato da Einaudi, questo piccolo romanzo, dell’autore del celebre Ex Cattedra, da cui fu tratto nel 1995 il bellissimo La Scuola di Daniele Luchetti, è la narrazione a più voci di un rapporto coniugale che improvvisamente si interrompe, senza troppe spiegazioni, senza anticipazioni di sorta, senza preallarmi, semplicemente perché il lui della coppia perde la testa per una donna più giovane.

Una trama apparentemente ordinaria, quasi banale, ma solo superficialmente. Lacci, infatti, scandaglia gli equilibri, dà voce ai silenzi, amplifica le voci, le urla, gli umori, ponendo le domande senza risposte di una coppia qualsiasi; Lacci analizza in profondità un comune rapporto che prima si slega e poi si ricompone, mostrando, però, le profonde crepe di un’incollatura forzata. Vanda e Aldo sono una coppia comune con due figli, una bella casa, una vita rispettabile e tranquilla su cui, però, irrompe il fulmine di un tradimento, lo tsunami dell’incomprensione, passato il quale rimangono solo macerie. Un sisma che mina le fondamenta, rompe equilibri consolidati, modificando i contorni di un quadro che sembrava sfidare il tempo.
Lacci. Quando i rapporti familiari sono più di un semplice vincolo
La coppia si rompe, i timori affiorano, le incertezze divampano, così come i sensi di colpa, le accuse, i rimorsi.
Tutto quello che sembrava chiaro, diventa sfocato, e un’incipiente miopia si sostituisce inevitabilmente a una trascurata presbiopia. Il terreno, sotto quei piedi che sembravano solidi, cede e tutto frana fragorosamente, compresi i ricordi eternati in serene fotografie; il nodo si scioglie e i lacci, prima forti, stretti, uniti, si slegano nel vento.
Ma poi, come per i protagonisti del Gatto di Simenon, la consuetudine prevale sulla libertà, la necessità sulla passione, l’ipocrisia sulla paura della solitudine, il silenzio sul rumore. Lacci è il resoconto stenografico di quel sottile intreccio che è la coppia, una seduta psicoanalitica in cui il lettore è il muto analista che vede il dipanarsi degli eventi, collocati fra passato e presente, senza proferire parola, senza rilasciare giudizi, stupendosi semplicemente della costante rivoluzione dei sentimenti umani. Perché l’amore, la passione, in fin dei conti, «è come la pioggia, una goccia urta a caso contro un’altra goccia e si forma un rigagnolo.»

Leggere Lacci equivale ad ascoltare la voce irritata di Vanda, che si chiede perché sia successo, cosa abbia una ragazza qualunque più di lei, come possa la passione di una attimo, l’emozione di un bacio improvviso, abbattere i saldi muri di una famiglia. Ma scorrendo le pagine di questo romanzo, che lo scrittore e critico Marco Belpoliti ha definito «un piccolo capolavoro» si ode anche la voce frastornata di Aldo, spiazzato fra la passionale incertezza di un rapporto graffiato e la rassicurante certezza di una famiglia, ma anche quella più lieve dei due figli, vittime ma anche carnefici, spettatori paganti di una storia che sconvolge, forse irrimediabilmente, la loro fragile adolescenza.
Lacci di Domenico Stranone, un professore di scuola superiore che vinse nel 2001 l’ambito Premio Strega con Via Gemito (Feltrinelli), lo scorso anno è diventato un riuscito testo teatrale, con Silvio Orlando nella parte di Aldo e Vanessa Scalera in quella di Vanda, per la regia di Armando Pugliese che ha accettato di confrontarsi con un «racconto sul dolore e sull’amarezza del fallimento di una generazione intera,» fatto di una fuga e di un ritorno, un report sulla famiglia presentato senza edulcorazioni ma nella sua spietata e disarmante attualità, in cui tutti ci ritroviamo.
Maurizio Carvigno