Un capitano, un giocatore, un uomo: Agostino Di Bartolomei

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Un campione di calcio, corretto come pochi, non può uccidersi. Agostino Di Bartolomei lo fece e questo libro cerca di capire le cause di quel gesto.

San Marco di Castellabate, provincia di Salerno, 30 maggio 1994, in una fresca mattina che strizza l’occhio a un’incipiente estate, un colpo di pistola fende l’immobile silenzio di una giornata che assomiglia a tante altre, pigra e assolata ma che si trasforma in un attimo in un’infinita ed incomprensibile tragedia.

Su un terrazzo che guarda il mare su cui s’affaccia quel piccolo paese della costa cilentina, un uomo, che da poche settimane ha compiuto trentanove anni decide di farla finita, sparandosi un colpo di pistola al cuore. Quell’uomo è Agostino Di Bartolomei, per gli sportivi, specie quelli di fede giallorossa, semplicemente Ago.

Impossibile non notare l’incredibile coincidenza fra questo 30 maggio e quello di dieci anni prima, quando nello stadio Olimpico di Roma, la Roma, di cui Di Bartolomei da anni è capitano e leader incontrastato, perse soltanto ai calci di rigore, prima volta nella pluridecennale storia della competizione, la finale della Coppa dei Campioni contro gli inglesi del Liverpool.
Impossibile, ancor di più, credere che un uomo che ha fatto della serietà, della maturità, della correttezza dentro e fuori dal campo di gioco la sua cifra professionale possa essersi suicidato, ancor ci ha creduto il figlio Luca: “papà, io non ho mai creduto e non voglio crederci che in quell’attimo estraneo all’intelletto hai pensato a una sconfitta in quella stupidissima partita di calcio”.

A tentare di capire i motivi di quell’assurdo gesto che gettò nello sconforto un mondo del pallone forse troppo distratto, ci provano, con il libro L’ultima partita. Vittoria e sconfitta di Agostino Di Bartolomei, edito da “Fandango”, due grandi giornalisti: Giovanni Bianconi, già autore di apprezzati saggi sulla storia della Banda della Magliana e da anni firma illustre del Corriere della Sera, e Andrea Salerno che si è occupato, fra l’altro, di Pier Paolo Pasolini e dell’Italia di Berlusconi.

Il saggio si articola su un costante e avvincente ping pong fra la cronaca minuta di quell’incredibile partita di calcio e la vita e la carriera di Di Bartolomei, un artificio letterario che, come in una tragedia teatrale, tiene il lettore letteralmente incollato.
Un libro di sport ma non solo perché una partita di calcio è per molti aspetti metafora esistenziale, con le vittorie, le sconfitte, la necessità di alzarsi nonostante tutto per avere il coraggio di tirare un calcio di rigore, mettendo in conto anche di sbagliare, anche se Ago in quella maledetta notte non sbagliò, perché, prendendo in prestito le parole di De Gregori, “un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia,” qualità che Di Bartolomei possedeva in grande abbondanza.

Pagine che ripercorrono la vicenda umana e professionale di Ago, che dai campetti polverosi di un oratorio di Tormarancia, periferia della capitale, arrivò a un passo dal cielo, a undici metri dal trionfo, giocando nel suo stadio, da romano, romanista e capitano, la partita più importante di tutta la sua carriera.

Un uomo forse troppo solitario, magari triste che però vinse sul terreno di gioco senza alla fine essere capace “di ridere dentro un bar”, di gridare aiuto, lui che non urlava mai, a un mondo troppo sordo, rimanendo, come quando giocava, semplicemente in disparte, lasciando che fossero gli altri a parlare, a mettersi in mostra.

Nel libro di Bianconi e Salerno non c’è traccia di giudizio ma solo il timido tentativo di capire, perché dietro una simile decisione rimane sempre e soltanto il fragoroso silenzio di mille impossibili domande.

Maurizio Carvigno

Nato l'8 aprile del 1974 a Roma, ha conseguito la maturità classica nel 1992 e la laurea in Lettere Moderne nel 1998 presso l'Università "La Sapienza" di Roma con 110 e lode. Ha collaborato con alcuni giornali locali e siti. Collabora con il sito www.passaggilenti.com

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