Dacia Maraini ci parla dello stato del teatro italiano, di Amelia Rosselli e del femminicidio.
Il 20 giugno 2016 abbiamo visitato la Casa delle Letterature di Roma per partecipare alla presentazione del numero 74 della rivista letteraria Nuovi Argomenti, dedicato alla poetessa Amelia Rosselli. Ci si è interrogati sulla sua funzione storica a distanza di vent’anni dalla scomparsa. All’evento ha partecipato anche la scrittrice Dacia Maraini, che abbiamo avuto modo di incontrare in un momento di pace poco prima dell’inizio dell’appuntamento. Il clima era cordiale e la piccola sala andava riempiendosi lentamente.
Maraini, nella sua intensa attività letteraria, si occupa di teatro da anni e nel ’73 è stata fra le fondatrici del Teatro della Maddalena di Roma, esperienza unica di un teatro gestito da sole donne. Erano gli anni d’oro della sperimentazione, della creatività che poteva ancora esprimersi con pochi mezzi, per iniziativa di pochi, attirando poi l’attenzione di molti. Il teatro oggi è invece una creatura che soffre l’economia e la politica degli ultimi decenni e si trascina ormai senza fondi. La situazione è peggiorata con l’esclusione della stragrande maggioranza dello Spettacolo dal Vivo dai finanziamenti per la cultura; una scelta prettamente ministeriale. Così, sebbene la creatività continui ad abbondare nel tessuto dei piccoli teatri, questi sono fisicamente morenti, strozzati per carenza di risorse. Anche Maraini ha vissuto la crisi del settore in prima persona, dovendo chiudere un festival del teatro da lei diretto a Gioia dei Marsi per mancanza di finanziamenti.
“Credo che i più danneggiati siano il teatro sperimentale, il teatro dei giovani, il teatro diciamo povero. Le tasse sono aumentate. Adesso se uno vuole fare teatro, anche sfruttando se stesso come autore, come attore, come regista, deve pagare delle tasse che una volta non c’erano. Per questo io sarei, più che per chiedere finanziamenti che poi vanno sempre a quelli sbagliati, per una detassazione sistematica, che lasci lavorare chi non ha patrimoni, ma talento e voglia di creare.”
Come dice la scrittrice, le grandi produzioni trovano un modo per tirare avanti, un esempio ne è il Teatro Quirino, ma il teatro sperimentale, quello da cui nasce il teatro nuovo, non può ovviamente contare sulle stesse risorse.
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Dacia Maraini, seconda partendo da destra; la poetessa Biancamaria Frabotta, alla sua destra, e il poeta Roberto Deidier alla sua sinistra. |
Il giorno prima i romani avevano votato al ballottaggio il proprio candidato sindaco e quella mattina era ormai confermata l’elezione di Virginia Raggi. Per tutta la campagna elettorale sono stati molti i temi toccati e abbiamo voluto chiedere a Dacia Maraini se la cultura fosse stata fra i punti discussi. La scrittrice si è lasciata andare ad una breve risata.
“Non mi sembra. Si è parlato di buche, si è parlato di traffico, si è parlato di immondizie e cose, per carità, sacrosante. Ma una città come Roma vive soprattutto di turismo, e quindi la preoccupazione del mantenimento dei suoi beni culturali dovrebbe essere la prima cosa per gli amministratori. Non mi sembra ci sia questa tendenza.”
Non è un mistero, insomma, che di tutto si sia parlato, tranne che di cultura e per nulla di teatro. Semmai, come ha sottolineato Gigi Proietti alla conferenza stampa del Campidoglio per la nuova stagione del Globe di Villa Borghese, se ne parla, senza specificare cosa venga inteso per cultura. Un termine dunque fumoso e abusato senza nulla di concreto a sostegno.
Abbiamo anche chiesto a Maraini di donarci qualche parola su Amelia Rosselli. Il 74esimo volume della rivista presentata alla Casa delle Letterature è un omaggio alla figura di questa grande poetessa. Nata nel 1930 e morta suicida nel 1996, è stella luminosa che da sola si pone come rappresentante più alta del secondo novecento poetico. Fra le sue opere più famose ricordiamo Documento, Impromptu e la Libellula. Il numero in questione è affettuosamente scritto dalle conoscenze ed amicizie che l’hanno accompagnata negli anni e dagli studiosi che di lei si sono innamorati tramite gli scritti.
“Amelia io l’ho conosciuta bene. Era cugina di Alberto, quindi spessissimo la vedevo. L’ho conosciuta, ammirata, le ero affezionata. Era una persona non facile, perché aveva dei problemi psichici irrisolti, dovuti al trauma dell’assassinio del padre e dello zio da parte dei fascisti. Aveva perso la madre precocemente, poi il padre e lo zio ammazzati in quel modo… Credo che tutte queste ferite abbiano influito sul suo equilibrio. C’erano dei momenti in cui era perfetta e dei momenti in cui viveva nel terrore, aveva delle allucinazioni, sentiva delle voci, aveva paura di essere uccisa.”
Le chiediamo un consiglio per chi volesse approcciarsi alla visionaria realtà di Amelia Rosselli e la scrittrice ci risponde con grande sincerità, con una certa luce negli occhi, di chi ricorda la melodia affettuosa di una vita, come di una poesia:
“Bisogna prendere dei libri e leggerli. Io non credo che i poeti abbiano bisogno di tante spiegazioni. Amelia non è una poetessa facile, la sua poesia è molto sofisticata, enigmatica, di ardua interpretazione. Faceva esperimenti col linguaggio, lavorava sui suoni quasi più che sui significati delle parole. Per assaporarla bisogna semplicemente immergersi, entrare in questo ritmo che è di una grande sapienza musicale.”
La poesia non è un genere a cui l’editoria italiana concede ormai grande spazio. Maraini nel corso dell’evento si lascia poi andare ad una considerazione interessante. Siamo un paese che legge poco, la poesia ancor meno, ma quando questa viene poi letta in pubblico, ne rimane in qualche modo catturato. “La voglia di ascoltare la voce e l’incapacità di leggere.” Così descrive il fenomeno.
Rivolgiamo alla scrittrice un’ultima domanda. Ci ricordiamo di Voci, uno dei suoi romanzi, pubblicato nel ’94. Era un grido che richiamava l’attenzione sul fenomeno della violenza contro le donne. Era la storia di una giornalista, Michela Canova, che si immergeva nelle voci contrastanti di un’indagine per l’omicidio di un’aspirante attrice. La sua ricerca era immersa fra mille parole, poste a nascondere e distorcere la verità. Ricordando il proprio romanzo Maraini sorride, forse richiamando alla mente il procedimento della scrittura, ma rapidamente ricompone il viso di una serietà profonda e al contempo serena. Parla con chiarezza e forza:
“C’è purtroppo un aumento della violenza contro le donne. Il femminicidio continua a crescere. È una reazione, a volte inconscia, di fronte all’emancipazione femminile. Quegli uomini, che poi sono i più deboli, i più fragili, i più spaventati, i più immobili nel tempo, che non accettano i cambiamenti, che identificano la virilità con il possesso, sono quelli che entrano in crisi di fronte alla perdita del possesso. Possono diventare talmente ossessionati da trasformarsi in assassini. Purtroppo lo dice la cronaca, non lo dico io. Si tratta di una vera e propria tragedia, perché non solo ammazzano la moglie, ammazzano i figli, ma ammazzano anche se stessi. Non vedo altre spiegazioni oltre il trauma culturale. Non c’entra niente col genere. Un bambino non nasce assassino. Lo diventa. Anche i popoli a volte reagiscono in maniera infantile: si fanno prendere da una paura irrazionale e panica e si mettono a costruire muri. Mentre l’unico modo di affrontare i pericoli è capire, ragionare, unirsi e fare tutti insieme progetti per il futuro.”
Siamo ben coscienti di quanto la paura del diverso, della modifica, possa essere contagiosa: essa penetra nelle anime angosciate, oscurate da insicurezze personali o del secolo. Si perdono, forse per assenza di un contatto, di un aiuto che non c’è stato, o non ha raggiunto tutti. Se i messaggi di comprensione sono stati ignorati, o le loro voci sono state tradite dall’indifferenza delle loro azioni, non è forse questa paura, di chi si ritrae al cambiamento, una colpa collettiva e partecipata?
“Certo pensare solo a chiudere le frontiere e difendere i propri piccoli interessi non serve a niente. Tanto il movimento dei popoli va avanti lo stesso. Bisogna affrontarlo, con generosità, coraggio facendo piani per il futuro. Ma devono essere piani costruttivi e solidali, non isterismi nazionalistici. Ricostruire i paesi distrutti, trovare il modo di riportare chi è scappato per paura e fame, nei propri paesi di origine, liberandoli dalla fame e dalle guerre.”
Gabriele Di Donfrancesco
@GabriDDC