Conoscere fino in fondo la protagonista del libro “La danzatrice di Seul” di Shin Kyung-Sook (Piemme, 2019) è impossibile. Destinata ad essere sospesa a mezz’aria, la bambina, ballerina e donna, difficilmente troverà una base su cui appoggiare i suoi graziosi piedi. Inoltre, con difficoltà le sarà concesso un nome per identificarsi completamente nel mondo, o meglio nei mondi, in cui si troverà.
Le pagine de “La danzatrice di Seul” invitano il lettore curioso, che vuole immergersi in un solo momento in un tempo passato, il XIX secolo, e in un luogo esotico, la Corea del Sud.
I brillori sbiaditi di un’epoca gloriosa fanno da cornice all’inizio di una storia che è sempre vista da occhi sorpresi, cuoriosi e diffidenti. Non sono sempre gli occhi appassionati della protagonista, Jin. Ma sono anche quelli del console Victor, di Donna Suh o del vescovo Blanc, che dirà alla piccola Jin di imparare il francese. Quasi come fosse stata destinata a non essere mai “a casa”, Jin effettivamente imparerà il francese, lingua del quale paese farà presto parte.
In Francia Jin è la moglie di Victor e un’esotica coreana. È una dama di corte, una dama parigina, una ballerina, una traduttrice… “Chi sono io?”, vola fuori da sé la voce orfana di Jin, mai capace di atterrare. La nave in rotta tra l’Oriente e l’Occidente, sulla quale osserviamo Jin all’inizio del libro in viaggio verso la Francia, non la vede mai scendere.
La ricerca di una identità della danzatrice di Seul
La protagonista di questo romanzo sembra essere in uno stato di limbo, di eterno passaggio, come in una danza: accolta alla corte reale della tarda dinastia Joseon da orfana senza genitori diventa Damigella Suh, per il fedele amico Yeon è “Campanula”, per Donna Suh, che la accoglie in casa dopo la morte della madre, è “Ewha”. Poi, le viene conferito un nome, Yi Jin, dal re quando le viene permesso, in via eccezionale, di lasciare la Corea per la Francia come futura moglie del primo console francese in Corea, Victor Collin de Plancey.
Jin è anche un camaleonte incompetente, secondo la necessità, tutto in lei può cambiare: la lingua che parla, il vestito che indossa, la sua occupazione. Però, Jin non si adatta mai veramente, né in Francia né quando torna in Corea. L’animo della protagonista rimane illeggibile e impenetrabile, tacitamente sempre fedele ai suoi affetti. Viene giudicata in base a ciò che rappresenta per gli altri piuttosto che per se stessa. Alla fine, l’esterno definisce il suo destino. La sua bellezza esteriore diventa la ragione della gelosia della regina e dell’allontanamento di Yi Jin. “Vivi nella bellezza, affinché il tuo nome infonda grazia in coloro che lo pronunciano”, le dice la regina nel congedarsi: parole poco stimolanti che si rivolgono all’apparenza, piuttosto che alla felicità personale.
L’estraneità di Jin attira un’attenzione scomoda a Parigi, facendola sentire molto simile agli africani che vede in una terribile vetrina del Bois de Boulogne, messi in mostra come un “altro” esoticizzato.
Jin non era mai libera dall’attenzione, gentile o sfacciata, degli sconosciuti. E senza quella libertà, non poteva esserci uguaglianza.
“La danzatrice di Seul”
La mostruosità dell’esibizione, che può sembrare facilitare la vita di Jin, in verità, la imprigiona.
Occidente e Oriente: due mondi a contrasto
Il libro è un lungo parallelo tra la vita di Yi Jin e quella della Corea alla fine del XIX secolo: la graduale sottomissione al controllo straniero, la stessa sofferenza nella privazione di sé, e la sconfitta finale. L’idea di apertura nel libro è sovvertita. L’immagine dell’Europa libera e liberale si rivela come una galleria di imperialismo. Indizi dell’invasione sono già osservabili dal semplice, ma contro ogni protocollo, “bonjour” di Victor. Yi Jin non trova nelle collezioni parigine il centro della cultura mondiale, ma la cultura rubata, scoprendo di essere lei stessa per Victor, avido collezionista, un pezzo d’arte umano, un souvenir coreano.
L’analogia storica tra i paesi e i protagonisti possiede una proprietà fatalista ed è magistralmente accurata. La scrittura di Shin Kyung-Sook ricuce accuratamente i dettagli, dalle situazioni geopolitiche del periodo storico ai sentimenti dei protagonisti, sino ai dettagli più intimi, come l’orlo della gonna di Jin bagnato di rugiada dopo le sue passeggiate all’alba. La storia cerca la bellezza dell’insieme: nei panorami, negli umori e nelle vicende. Il libro, senza soluzione di continuità, ma fluido come una coreografia, è legato con i pezzi di identità con cui Yi Jin sta cercando di identificarsi, e noi con lei.
Cristiana F. Toscano