L’insostenibile pesantezza del precariato nella Napoli di Alessio Forgione

NNEditore

“Napoli mon amour” è l’esordio narrativo di Alessio Forgione. Un’istantanea sul precariato lavorativo ed esistenziale di cui avvertiamo l’essenza. E che disturba nella sua urgenza.

Ad Alessio Forgione è bastato un attimo d’ispirazione fortuita per partorire in nuce uno dei titoli migliori dell’anno che volge a termine. Lo ha fatto in sordina, appuntando un’idea balenatagli in sonno e in veglia, in quello spazio del “tra” che caratterizza la vita del protagonista. E un po’ anche la sua.

La componente autobiografica del testo del resto c’è, si avverte, e Forgione non la ridimensiona nemmeno più nelle interviste che ruotano sempre intorno agli stessi temi. È poderosa e sfumata nei contorni, capace di attraversare i dettagli di un’esistenza ferma, soffocata. Nei “Detti memorabili di Filippo Ottonieri” Leopardi mette in bocca al suo alter-ego la massima secondo cui un buono scrittore deve parlare innanzitutto di se stesso. Non c’è altro modo, infatti, di rappresentare «le cose altrui se non parlando delle proprie», giacché l’uomo ravvisa i propri tormenti nelle storie di un altro, piuttosto che nel suo animo. È una questione di minor resistenza, di approccio non condizionato.

Ciò che Forgione fa in “Napoli mon amour” è pericolosamente vicino a quanto raccomandato nel memorabile detto. Pericoloso perché scoperchia una realtà che è sotto gli occhi di tutti.

Perché dà voce a paure inespresse che si vestono di sicurezza. Perché attribuisce un nome e un volto a un campione di umanità “diversa” che oggi – forse – è un po’ meno altra e decisamente più nostra.

 

NNEditore
Alessio Forgione
Fonte: NNEDITORE

 

Non è certo un caso, allora, la scelta di NNEditore di pubblicare il testo nella serie Innocenti, per ricordarci come, in una storia che si ripete sempre uguale, siano sempre i meno “corrotti” ad avere la peggio. Lo aveva detto Pasolini, con quei Ragazzi di vita che corrono nel sole ignorando la sorte di sacrificio o sottomissione che li attende. E lo ribadisce adesso Alessio Forgione, tramite la caratterizzazione di un personaggio fuori dal tempo che incarna tutte le paure di una generazione frustrata.

Amoresano – questo il suo nome o meglio, il cognome – è un trentenne con due lauree all’attivo e un passato da marinaio sulle grandi navi. Gli unici soldi che ha se li è guadagnati così, lontano da casa, senza provare nostalgia, in mezzo a quel mare che solo riesce a calmarlo. Come il pensiero di Procida insieme all’amico Russo. Come la spiaggia raggiunta da piccolo in un ricordo fantastico. Il mare che dai surrealisti ad Adorno passando per la psicoanalisi è ritorno a uno stato di primigenia felicità.

Vita allo stato puro, l’unica possibile per non soffocare nella polvere di un Paese vecchio come le scartoffie burocratiche che si porta dietro.

Ma, Anna Maria Ortese docet, il mare ancora oggi non bagna Napoli. Tantomeno la Napoli di Amoresano, che – come Alessio Forgione – si ritrova umiliato in un seminterrato a discutere se vendere portachiavi e azalee o lavorare in un call center.

E allora tanto vale aspettare ancora un po’, tanto uno con due lauree qualcosa di appagante dovrà pur trovarla. Nel frattempo ci sono le birre, scolate di bar in bar insieme a Russo e contando i soldi. Ci sono i pranzi di mamma, preparati con amore senza mai una parola fuori posto, solo un timido «Che fai? Stai cercando?». Di tanto in tanto, così, senza disturbare. E poi c’è il Napoli di Sarri, con Lorenzo Insigne che per Amoresano è un «cazzo di eroe romantico», uno di quelli che non è di questo mondo.

Come lui, del resto, che al sistema Italia sente di non appartenere e che ne è vittima e in fondo un po’ complice. Lui che come la città non sa fuggire da se stesso, perché si ama e si odia in una misura tale che l’assuefazione e il riscatto finiscono per confondersi e anestetizzarsi l’un l’altro.

 

NNEditore
Napoli

Amoresano non ha più impulsi, rimane in una zona di comfort che gli è stretta e scomoda ma che in fondo regala sicurezza. Nell’attesa del dopo, nel rimandare a domani. Fino a che non arriva l’amore a sconvolgere tutto.

È un tornado che porta come sempre un nome di «femmina», Lola, che poi è Nina, ma sceglie la maschera nabokoviana per presentarsi a lui. E già questo non promette nulla di buono, perché si sa quali conseguenze ha su Humbert Humbert la passione per Lolita. Ma Amoresano non se ne cura. Proprio lui che scrive e divora libri tanto da citare “La bella estate” in una conversazione da rimorchio al bar. Si fa trascinare e dopo una parentesi in cui tutto sembra possibile, finanche la felicità, la sua esistenza torna al punto di partenza, solo più piatta, e ancor più spezzata.

È una vita paralizzata dall’urgenza di qualcosa che si desidera ma a cui non si riesce a dare un volto. Sospesa – come dicevamo – nello spazio del “tra”: tra le illusioni, tra i sogni, tra il bene e il male che non si conciliano mai.

È la vita di Amoresano e di Alessio Forgione, così come quella di tanti giovani cresciuti a speranze e convinzione che bastasse una laurea a garantirsi un futuro stabile nel proprio Paese. Rispetto al quale partire e restare rappresentano due facce complementari di un coraggio misto ad angoscia.

È su questa drammatica presa di coscienza che Alessio Forgione costruisce le basi di un’opera che in 223 pagine ci mette dinnanzi a un disturbante quadro esistenziale e umano. Lo fa con una scrittura cruda, asciutta, fatta di frasi brevi e taglienti come la lama di un rasoio. E il tutto, semplicemente, nella maggiore sincerità possibile. È per questo che Amoresano è lui e noi, in quella paralisi da urgenza del “tutto” che viene spazzata via da una realtà che non sa rispondere a questo. E nemmeno si sforza di farlo.

La quarta di copertina del volume recita che «Questo libro […] è per chi ha capito l’immensità blu di perdere tutto, in un solo momento, come lasciare un bagaglio su un treno in partenza». Ma questo libro è anche altro. È realtà cruda, irrimediabile evidenza per chi, parafrasando Tondelli, voleva tutto, e si è sempre dovuto accontentare di qualcosa.

 

Ginevra Amadio

Giornalista pubblicista, laureata in Lettere e Filologia Moderna. Lettrice seriale, amante irrecuperabile del cinema italiano e francese.

2 Commenti

COMMENTA QUESTA DOSE DI CULTURA

Lascia un commento!
Inserisci il tuo nome qui