Un viaggio nell’animo umano, un racconto che colpisce e non lascia indifferenti: questo è “Quello che non sono mi assomiglia”.
Abbiamo incontrato Gianluca Giraudo, giovane autore di Cuneo ma trapiantato a Roma, che esordisce con il suo primo romanzo, edito da Autori Riuniti, raccontando la fuga dalla quotidianità. Ecco cosa ci ha raccontato su questo primo interessante lavoro.
Il protagonista di questo romanzo è Ignacio, un uomo realizzato, padre di famiglia. Raccontaci un po’ di lui.
Come tradisce il suo nome, Ignacio ha origine spagnole, ma da sempre vive in Italia. Oltre a fare il padre di due figli, Ignacio fa l’ex marito, ma anche l’uomo desideroso di vivere nuove relazioni. Professionalmente è un docente di sociologia, cosa che lo aiuta a tenere un occhio arguto, forse un po’ critico, verso il suo tempo e verso se stesso. Anche se ha cinquant’anni e di fatto il privilegio di aver raggiunto la realizzazione in ogni ambito della vita, sente di non poter stare fermo e di dover andare verso qualcos’altro. Mi piaceva l’idea di un romanzo di formazione “dell’età matura”, come dire che in fondo non è mai troppo tardi.
Un giorno Ignacio scompare…Cosa lo porta a lasciare una vita apparentemente perfetta?
La costruzione della sua esistenza equilibrata, compiuta, apparentemente “perfetta” ha avuto dei costi. Messi insieme, uno dopo l’altro, i mattoncini della sua vita, Ignacio può finalmente “problematizzarsi”, chiedersi se questa vita che si è costruito lo identifica, o meglio: se gli assomiglia. Il giorno del suo cinquantesimo compleanno accadono alcune coincidenze che gli rapiscono la mente: una specie di raptus. Era giusto che il libro partisse da questo personaggio, da questi presupposti, per innescare poi la voce di tutti gli altri.
Il romanzo è diviso in dieci capitoli, ognuno con il nome di un personaggio. La scelta di dare al racconto più voci è molto incisiva. Siamo curiosi di sapere come hai concepito questa struttura…
La struttura è venuta da sé: era l’unica con cui sapevo che avrei potuto scrivere un libro. Me ne sono accorto quando ho iniziato a mettere giù i primi personaggi: voci diverse, inizialmente indipendenti, che ti tirano dentro la loro vita per poche ma intense pagine. Mi trovo a mio agio con la scrittura in prima persona. L’incontro con “Felici i felici” di Yasmina Reza (Adelphi), che ha una struttura analoga, mi è stato di conferma: è tutt’oggi uno dei miei romanzi preferiti, l’unico che rileggo periodicamente. In un secondo momento mi sono reso conto che questa organizzazione del materiale narrativo era funzionale a un’altra cosa che mi affascina molto: il rapporto tra realtà e sua rappresentazione. Il fatto che non esista mai solo una storia, ma diversi punti di vista, diverse versioni dei fatti. È questo che ho cercato di fare nel libro dando spazio a dieci personaggi.
“Quello che non sono mi assomiglia” è davvero un viaggio nell’animo umano, nelle nostre paure e nelle nostre emozioni. Che rapporto hai tu con le tue più intime sensazioni? Se fossi Ignacio cosa faresti?
Per avere credibilità come giovane scrittore esordiente dovrei dire di avere un rapporto conflittuale con le mie emozioni! (ho risposto sorridendo) In realtà non è molto così, benché questo non renda la faccenda meno complicata: per molto tempo ho operato soprattutto di “rimozione”, non ponendomi troppe domande, mentre a un certo punto sono cambiato e ho iniziato a guardare tutto in faccia. Ho iniziato a scendere, benché senza coraggio, nel profondo delle cose. Come è immaginabile, il libro ha avuto un ruolo decisivo in questo passaggio. Per questo motivo, ora come ora, mi piace pensare che se fossi Ignacio non fuggirei, ma rimarrei a tutti i costi, cercando di cambiare le cose “da dentro”.
Fuggire dal proprio lavoro, dalla propria vita…forse è quello che dovrebbero fare molti al giorno d’oggi per cercare di rinnovarsi. Pensi che possa essere la soluzione giusta per trovare la giusta dose di felicità?
La fuga è un concetto abbastanza ambiguo, che ogni persona deve declinare secondo la propria sensibilità. Un grande scrittore e viaggiatore come Nicolas Bouvier ha detto che quando partiamo ci sembra sempre di tagliare la testa sotto una ghigliottina. Alla fine, però, ce la andiamo puntualmente a riprendere e la ritroviamo quasi uguale: non possiamo fare altro d’altronde, siamo sempre noi. Io tendenzialmente la penso così. Ma da qualcuno la fuga può essere anche concepita diversamente, in modo più netto, irreversibile, come qualcosa che veramente ti rende nuovo: in tal caso mi viene da dire che sì, forse fuggire può essere la soluzione giusta per cambiare. Per diventare qualcuno che ci assomiglia di più.
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