Scatti della vita artistica di Tina Modotti

Tina Modotti nasce a Udine in fin de siècle da natali umili: madre cucitrice e padre carpentiere.

Cresce in seno alla povertà e a un desiderio di rivendicazione che la condurranno, sebbene tardivamente, a un’indipendenza e un individualismo che all’epoca erano una prerogativa esclusivamente maschile.

La sua famiglia è costretta a emigrare in Austria con la speranza di trovare prospettive occupazionali ed economiche migliori; al suo ritorno ad Udine Tina frequenta la scuola primaria in loco e in tenera età si accosta alla fotografia. Lo zio paterno possiede uno studio fotografico, un habitat che desta in lei subito una familiarità.

Un regime di confidenza si instaura precocemente tra Tina e questa espressione artistica.

Nel 1913 raggiunge in America, a S. Francisco, la sua famiglia emigrata nuovamente alla volta di una sorte migliore e comincia a lavorare in una fabbrica tessile. Ella respira il sostrato umano sociale dell’ambiente operaio e ne sposa da subito il pensiero.

In seguito persegue le sue velleità artistiche recitando in opere di Pirandello; al momento ancora non matura una professionalizzazione dell’arte della fotografia.

Evento determinante che cambia il decorso degli eventi è il suo matrimonio con il pittore Roubaix de l’Abrie Richey (Robo). Costui la introduce nel “ginepraio hollywoodiano” e Tina viene notata, oltre che per la sua avvenenza, per la sua aura malinconica, intensa che la contraddistingue dal parterre femminile all’epoca. Recita in alcune pellicole, come “Tiger’s coat”, che la qualificano come interprete valida.

Vedova, intraprende una relazione con il fotografo Edward Weston e si sposta in Messico.

Qui inizia a frequentare il circolo dei muralisti, quali Diego Riveira e Clemente Orozco, accogliendo i dettami del partito comunista messicano. Nota la sua amicizia con la pittrice Frida Khalo, con cui condivide spirito e iniziative.

Tina fa collimare il senso civile e il senso artistico e crea il suo stilema, improntato sull’immediatezza del quotidiano operaio. Prende corpo un’idea di fotografia che esemplifichi la vita, nelle sue crudezze e asperità. Nel 1924 Palacio de Minerìa ospita una sua mostra dove gli scatti assurgono a dei veri e propri documenti. Secondo Tina la fotografia essendo pura espressione del contingente è testimonianza. Un’arte in cui risiede l’obbiettività della vita, che può essere scansionata in tutte le sue ombre.

Riconosciuta quale artista professionista ora Tina può essere indipendente economicamente, intellettualmente e affettivamente. Il suo credo sarà la partecipazione attiva al partito comunista che la sostiene e la coopta fino in Russia, ove entrerà a far parte della polizia sovietica e parteciperà alla mobilitazione socialista. In seguito giunge in Spagna durante la guerra civile, legandosi all’italiano Antonio Vidali. Nel 1945 Tina muore d’infarto, anche se, in realtà, si suppone un diverso epilogo nel quale sia stata vittima di una cospirazione politica.

Metto troppa arte nella mia vita

Tina vuole essere considerata solo una fotografa. Non ama la denominazione di artista, le sembra stucchevole e fuorviante rispetto al rigore morale e civile della sua attività.

I suoi scatti sono pieni di ardore, di quell’ardore che prova solo chi ha coscienza di sé e della propria condizione. Un registro consapevole, di stampo quasi virile che nel suo celeberrimo “Le mani di burattinaio” pone il suo manifesto.

Un vero e proprio “bardo” di chi è entrato in contatto con la fatiscenza della vita e la contrasta con il vero.

Tina con la sua arte stenografa il peso dell’esistenza umana, registra la vita in ogni suo attimo: primordi di una “street photography”. La denuncia è arte, ha valenza estetica. Ella sposa il rigore dell’autenticità che non può abbacinarsi su meri principi decorativi estetici.

Come un urto con il visibile, la sua fotografia stigmatizza questa collisione. Non nasconde, anzi fa mostra del vulnerabile e del corrotto.

Assorbe tutti gli input che provengono dall’esterno e non li rielabora, ma “come un ready made” li esemplifica semplicemente, laconicamente.

Un silenzio che proviene dal vero, senza bisogno di barocchismi e artifizi. Rifugge ogni vano estetismo che le sembra corrompa la genuinità del messaggio.

Costanza Marana

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