Vittorio Sgarbi ci conduce nei meandri della follia

Oltre 200 fra dipinti, fotografie, sculture, installazioni, volti, testimonianze, tutto legato a una sola parola: follia.

Dinnanzi al visitatore che sta per oltrepassare la soglia del Museo della Follia ecco apparire una frase:

«Entrate, ma non cercate un percorso. L’unica via è lo smarrimento.»

Questo il saluto che l’anfitrione Vittorio Sgarbi rivolge a noi novelli dannati prima di cominciare un viaggio alla fine del quale non saremo più gli stessi.

Come le parole che precedono l’ingresso nell’inferno dantesco, anche queste posseggono tutta la forza evocativa di un triste, inevitabile memento.

Vittorio Sgarbi può risultare antipatico, borioso ma quando si tratta di arte giù il cappello e solo applausi.

Se lo scorso anno l’omaggio a Giorgio De Chirico ad Osimo ci aveva estasiato, il Museo della Follia ci ha letteralmente sconvoltoStiamo parlando della mostra itinerante che il noto critico dal 2011 porta in giro per l’Italia.

Dallo scorso 27 febbraio è ospitata nella Cavallerizza in piazza Verdi a Lucca, dove vi rimarrà fino al prossimo 18 agosto.

Allacciate le cinture perché si parte, destinazione follia.

Un sottile, enigmatico filo nero, lega l’arte e la follia che, come più volte ricordato dallo stesso curatore, è anch’essa una forma d’arte, la più pura, perché senza vincoli.

Museo della Follia è la visionaria creazione partorita da un genio qual è Sgarbi che da anni entusiasma pubblico e critica.

Dal lontano 2011, quando venne presentata alla Biennale di Venezia, questa mostra non ha smesso di atterrire, mettendo in luce come la follia sia una condizione che riguarda tutti.

Immersi in un percorso tenebroso, come la parte più profonda del nostro inconscio, si varca la soglia del Museo della Follia senza preconcetti.

Si è totalmente rapiti dalle nostre più recondite emozioni, da quelle più primitive e quindi, in quanto tali, forse più folli. Opere di straordinari artisti “folli” si svelano davanti agli occhi stupiti di noi poveri sani.

Francis Bacon con una serie di opere fra cui l’irriverente Crocifissione. Antonio Ligabue, presente con alcuni dei suoi più celebri dipinti, fra cui gli enigmatici autoritratti. E poi Fausto Pirandello ed Enrico Robusti con il suo agghiacciante In questo bar non si fa credito.

Ma anche Lorenzo Alessandri, con le sue geniali e irriverenti Gioconde e Silvestro Lega con l’inquietante L’adolescente.

Non solo dipinti fra le opere esposte.

Lungo il percorso sono diverse le sculture e le istallazioni presenti.

Straordinaria l’opera Paziente n. 1 di Cesare Inzerillo, in cui un malato ridotto a uno scheletro è seduto su un letto d’ospedale. Poi, dello stesso autore, la colossale Apribocca. Si tratta di una scultura che riproduce un oggetto reale, tradizionalmente utilizzato per far aprire la bocca ai ricoverati.

Si cammina, nel profluvio folle di opere, sfiorati dalle voci e dai suoni di coloro che vissero l’atrocità dei manicomi, il dramma della pazzia certificata.

In una costante stimolazione sensoriale ci si aliena totalmente dal presente, dal razionale, dall’ordine, per entrare in una dimensione surreale dove, però, non ci sentiamo estranei. Una mostra insana, e per questo vera, che spinge il visitatore oltre ogni limite.

Come quando si arriva al cospetto della Stanza della Griglia.

Qui, in un grande spazio illuminato da un’abbacinante luce al neon, sono presenti decine di ritratti ritrovati nelle cartelle cliniche di alcuni ex manicomi.

Volti anonimi che urlano silenziosi la rabbia per una vera follia: quella che, in virtù di una presunta logica medica, li ha resi disumani.

Da anni studio la vicenda della cura della malattia mentale. Ho letto molto e visitato diversi ex manicomi ma mai ho provato simili sensazioni.

Sgarbi è riuscito, concentrando in un solo luogo la follia degli artisti e quella di comuni mortali, a strappare il velo dell’ipocrisia benpensante che creò l’inferno sulla terra. Si rimane impassibili mentre si visitano i vari ambienti della mostra, in un peregrinare fatto di partecipata presenza.

In un climax sensoriale si conosce un mondo ai più ignoto, quello dei tanti manicomi italiani, dove scorreva un’altra vita in cui anche l’amore era vietato.

Inferni in terra che grazie alla Legge 180, impropriamente ribattezzata Legge Basaglia, sono stati trasformati in simulacri abbandonati. Come l’ex ospedale psichiatrico di Teramo fotografato da Fabrizio Sclocchini.

Stanze, muri, letti, sedie, testimonianze mute di un luogo in cui è trascorsa anonima la vita di moltissimi esseri umani. A colpire, ancor più delle straordinarie opere, sono le decine di oggetti, minuziosamente raccolti in questo pantheon laico della follia.

Disegni, lettere mai spedite, vestiti, fotografie, cose comuni eppure tanto preziose, memoria vivida di storie cancellate, di anime calpestate.

L’ultimo girone da varcare è quello più orribile.

Nell’ultima sala viene riprodotto il video inchiesta realizzato nel 2011 dalla Commissione d’inchiesta del Senato sulla condizione degli OPG, famigerato acronimo che sta per Ospedali psichiatrici giudiziari, l’ultimo lembo della nostra democratica e lucida pazzia.

Impossibile non rimanere colpiti da quelle immagini, da quelle testimonianze, da quelle succursali dell’orrore per fortuna oramai definitivamente chiuse.

Si rimane per tutta la durata del documentario atterriti, incollati alla propria seggiola, consapevoli che la realtà spesso superi ogni atroce fantasia.

Anche io come Gesù ho avuto la mia resurrezione, sono tornata alla vita, ma non sono salita al cielo, sono discesa all’inferno da dove riguardo stupita le mura di Gerico antica.

(Alda Merini)

Testo e foto di Maurizio Carvigno

Nato l'8 aprile del 1974 a Roma, ha conseguito la maturità classica nel 1992 e la laurea in Lettere Moderne nel 1998 presso l'Università "La Sapienza" di Roma con 110 e lode. Ha collaborato con alcuni giornali locali e siti. Collabora con il sito www.passaggilenti.com

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