Così esordisce Goethe di fronte a una Madonna col bambino in cui la mimica dell’infante così vezzosa, vibrante, al centro di una composizione, intrisa di una tenerezza prosaica, lo fa esultare, giudicandone l’appartenenza al Correggio.
Antonio Allegri, detto il Correggio, dal nome della città natia in provincia di Reggio Emilia, nacque circa nel 1490 in una famiglia di umili origini. La sua patria era sede di una piccola corte aristocratica, a differenza di Parma che costituiva una città periferica del ducato di Milano, e dal 1521 dello Stato Pontificio.
L’artista quindi non svolse la sua attività in un centro egemone per la produzione artistica, né operò stabilmente presso una corte. Ciò non impedì la diffusione della sua arte nell’area geografica di Parma, Modena e Mantova.
Avulso dai parametri del “Cortigiano” di Baldesar Castiglione e esente dalle gerarchie cortigiane evidenziate nel canto XXXIIII dell’Orlando Furioso di Ariosto, egli viene comunque riconosciuto quale pittore onorevole.
Vasari lo descriveva, nelle “Vite”, quale malinconico, schivo e “il primo in Lombardia che cominciasse cose della materia moderna”, ne sottolineava la grazia, la morbidezza e l’abilità nel maneggiare colori e dipingere particolari fisici.
La sua fortuna fu dovuta anche all’istituzione di Parma quale capitale del ducato farnesiano nel 1545. In seguito, i contatti tra i Farnese, Roma e la corte imperiale favorirono la divulgazione delle opere di Correggio anche al di fuori dei confini emiliani.
“Il Gran cardinale” Alessandro Farnese avocò a sé dei pittori parmensi per compiere opere tra Roma e Caprarola. Questo connubio portò alla contaminazione del tratto tosco-romano con quello tipico parmense. Artisti quali Taddeo Zuccari e Federico Barocci subirono l’influenza di Correggio. Anche Annibale Carracci dopo la sua visita a Parma nel 1580 ne accolse lo spirito e arricchì di tali soluzioni stilistico-formali la sua attività a Roma.
Di particolare rilevanza per la sua committenza storica, oltre che per lo splendore delle opere, fu il ciclo degli “Amori di Giove”. Probabilmente richiesti dopo il 1530 da Federico II Gonzaga, duca di Mantova, essi dovevano fungere da presente per l’imperatore Carlo V. A riprova di tale destinazione, di questi quadri vi è testimonianza alla fine del cinquecento in Spagna.
Un’altra ipotesi fu che questo ciclo pittorico fosse pensato per palazzo Te, la residenza suburbana di Federico II Gonzaga (costui spesso raffigurato quale Giove).
Le quattro tele degli “Amori di Giove” avevano un contenuto esplicitamente erotico, dove le pose erano intrise di sensualità. Correggio attinse al repertorio classico formale.
“Ganimede” trattava del mito del pastore troiano, rapito da Giove, sotto le sembianze di aquila, e portato sull’Olimpo, dove diventò coppiere degli dei.
“Giove e Io” era la rappresentazione originale della metamorfosi ovidiana, dove Io in posa estatica, lasciva, si abbandonava a un abbraccio silente col dio, posto sotto forma di nube.
“Leda” risultava un dipinto estremamente complesso nella narrativa figurativa delle tre fasi della vicenda, in cui si alternavano allusioni carnali e echi mitologici.
Infine “Danae” immersa in un universo dolce intimistico, veniva raffigurata così lontana dalla futura rappresentazione di Tiziano.
Pittore singularissimo dà mostra di tutto il repertorio intimistico del Rinascimento nordico. Il senso del vago e dell’indefinito nelle sue tele trasporta in un universo nostalgico del sentire classico, ma allo stesso tempo sdogana un certo “visionarismo” negli accostamenti simbolici delle figure rappresentate. Pose estatiche addensate dalla carica chiaroscurale e una luce quasi pulviscolare atmosferica che avvolge il tutto.
Nelle sue linee vige una morbidezza, plasticità, e un senso di pathos che farà da assist al Barocco. La luce vibrante, le espressioni languide, la grazia convergono con piano spaziale incerto, mobile che arreca un dinamismo, flebile alla composizione.
Correggio dona con la sua arte l’aspetto più delicato del Rinascimento, mostrando una ritrosia che ne rimette in discussione i suoi parametri visivi. Mostra un’opacità che cela un pathos, un fervore che avrà pieno respiro nell’opera di autori successori come Lanfranco e Barocci.
Costanza Marana
Immagine: Sailko [CC BY 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/3.0)]
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