The importance of being Miguel Bonneville

Seni di stoffa e sguardo raggelante. Simone de Beauvoir si specchia nella sensibilità di Miguel Bonneville.

Parlare di Miguel Bonneville è una sfida complessa. Si entra nella sala e si vive una performance studiata come un percorso di interpretazione lasciato nelle mani dello spettatore. Insomma, quel genere di arte che Eliot avrebbe definito attiva: un’avventura individuale il cui senso va cercato scendendo con una fioca lanterna in uno scantinato buio. È l’accentuarsi del valore introspettivo del teatro. Solo che non è lecito parlare di scena. Non vi è una trama, non troviamo gli attori. La spiegazione è nel significato della voce perfomance. Sveliamo l’arcano con l’aiuto della Treccani. Performance è un’esibizione artistica dotata di caratteristiche che ne determinano “una certa imprevedibilità” e l’utilizzo del termine, nell’ambito della critica, prende piede dalla sperimentazione degli anni ’70. Detto questo, caliamoci nello spazio delle Carrozzerie n.o.t. Sono loro ad aver ospitato Miguel Bonneville la sera del 14 novembre, nell’ambito della rassegna Teatri di Vetro. Il titolo del lavoro è The importance of being Simone de Beauvoir. Chi è Simone? Non diamolo per scontato. In breve, è stata la compagna di Sartre e viene considerata madre del movimento femminista ai tempi delle contestazioni studentesche. Non c’è voluto molto per trovare una citazione ad hoc in grado di fornire una visione del personaggio che si rispecchi nel lavoro che andiamo analizzando.

 
“Con i tacchi bassi, i capelli tirati, somiglio ad una patronessa, ad un’istitutrice […].
 
Il fatto è che sono una scrittrice: una donna scrittrice non è una donna di casa che scrive, ma qualcuno la cui intera esistenza è condizionata dallo scrivere. […]”

S. de Beauvoir, La forza delle cose (La Force des choses, 1963)
Miguel si presenta nell’oscurità della sala. Delle luci fioche, quasi fosforescenti nell’impercettibile, rivelano una sagoma nuda. La posa del corpo, l’illusione dei tacchi e la sensualità del passo lascerebbero pensare ad una donna. È un travestimento, un inganno: un gioco di identità caricato dalla forza di una musica a tratti jazz, a tratti elettronica, tendente all’incubo. Sax e tromba rollanti in questa oscurità. I sensi si scuotono e i suoni evocano all’istinto la sensazione di pericolo. È una richiesta a precipitarsi in una ricerca di significato, sfidando una figura che ammicca con delle pupille gelate ed uno sguardo spaventosamente vuoto. Chi è? Non lo sappiamo. Ogni risposta è fallace, qualcosa la svia: un gesto, un movimento. Non è Simone? Non è Bonneville? Limitiamoci a questo: è un corpo di uomo che si acconcia i capelli, si veste. C’è uno specchio e ai suoi piedi un mucchio di fogli di carta a cui getta uno sguardo, come a seguire un elenco. Poi un telo si srotola dal soffitto; lui si trucca e si fa strada, come in passerella, per mostrarsi ai flash delle luci. Così il processo si ripete. Diverse pose, nuovi scatti; sguardi, preparazioni.

È in corso un processo di individuazione identitaria. Quel corpo si maschera in più personaggi di fronte ad un occhio generale, scegliendo il proprio volto attimo per attimo, su necessità personali quanto esterne. È un sadismo voluto dal soggetto. C’è un gusto specifico. L’intimità del momento della scelta è spezzata dall’atto di farsi spettacolo davanti ad un telo. Eppure è una sequenza che degrada: in partenza normale, ma nel rendersi pubblica sempre più disturbata. Le simbologie scivolano come una cascata sulla plasticità del corpo. Così capita che un lampeggiante rosso introduca due parrucche impiccate dalla stretta delle mani. La figura si accascia a terra in posizione femminea, coi seni rossi di stoffe penzolanti. Oppure si alza sulle punte dei piedi, a simulare dei tacchi. Il suo corpo è spersonalizzato, silente e dallo sguardo fisso. Ha un’identità e la si trova nell’ironia delle pose da scatti fotografici. Ecco, ora il titolo ha senso nell’ottica della performance. Assistiamo a Simone de Beauvoir ma non come personaggio, bensì come metafora delle proprie critiche, delle proprie parole; come un filtro applicato a delle immagini altrimenti stereotipate. Così, in questa passerella di finzioni femminili, dal corpo mutilato nella forma di un uomo, scopriamo Simone come colei che è l’opposto di tutto e scherza con noi. Si presta ad essere una figura maschile in parodia prima di svelarsi, tutta rossa e bianca, col suo cappello di volumi e i suoi tacchi di libri. L’importanza di essere Simone è trovare la sensibilità per vedere il meccanismo e sottrarsi all’olio che fa scorrere il metallo. Allora, mentre la luce svanisce nuovamente nell’oscurità, viene in mente un altro gioco di parole: the importance of being Miguel Bonneville.
 

Gabriele Di Donfrancesco
@GabriDDC

Nato a Roma nel 1995 da famiglia italo-guatemalteca, è un cittadino di questo mondo che studia Lingue e Lettere Straniere alla Sapienza. Si è diplomato al liceo classico Aristofane ed ama la cosa pubblica. Vorrebbe aver letto tutto e aspira un giorno ad essere sintetico. Tra le sue passioni troviamo il riciclo, le belle persone, la buona musica, i viaggi low cost, il teatro d'avanguardia e la coerenza.

COMMENTA QUESTA DOSE DI CULTURA

Lascia un commento!
Inserisci il tuo nome qui