Davide Enia porta a teatro L’Abisso, uno spettacolo necessario a cui risponde un pubblico che ha bisogno di umanità.
Solo due sedie nell’immensa area del palcoscenico della sala A del teatro India. Solo due corpi, quello di Davide Enia, drammaturgo, regista e attore, e quello di Giulio Barocchieri, chitarrista.
Non serve nient’altro perché L’Abisso è una storia che va ascoltata, che costringe lo spettatore a una pratica antica e umana ma oramai in disuso in questi tempi selvaggi, in questi anni in cui la parola è stata svuotata della pluralità di senso e dei mondi che abitano in lei da millenni.
Una scrittura sensibile e delicata quella de L’abisso, non a caso Appunti per un naufragio, il romanzo dell’autore da cui è tratto lo spettacolo, è vincitore del premio Mondello 2018.
Enia racconta i suoi anni a Lampedusa, in quella terra di frontiera dove le persone “si portano dentro un intero camposanto”, e lo fa attraverso un teatro di narrazione che non spettacolarizza la tragedia degli uomini risucchiati dal mare.
No, perché Enia più che parlare di migranti, racconta della vita e della morte incrociando la sua esperienza personale, quella del padre e dello zio, con quella degli esseri umani che hanno conosciuto il naufragio, che hanno incontrato più volte la morte e che hanno ogni piega del cuore e tutti i gangli del cervello segnati da un trauma irrecuperabile.
Enia va oltre i confini della narrazione e della messa in scena per calpestare un terreno che frana di continuo nelle nostre coscienze: il territorio della responsabilità civile. Proprio così, perché lo spettatore si ritrova nelle orecchie e nel corpo una testimonianza che non gli consente più di rifugiarsi dietro l’appagante vigliaccheria dell’ignoranza.
Ha nelle mani la prova che il bene è la sfida di chi sa che il mondo appartiene al male e per questo decide di mettersi in gioco per cambiare le cose, entrando violentemente nella Storia.
Nella Storia ci entrano tutti quelli che abitano quello scoglio di terra emerso dalle acque, Lampedusa, dove il cielo sembra franarti addosso: i pescatori, i volontari, la guardia costiera, i sommozzatori, i coraggiosi che non hanno mai dimenticato, nemmeno per un istante, “che abbiamo tutti le ossa bianche”.
Una messa in scena che fonde diversi registri e linguaggi teatrali, Enia si muove sul palco con una mimica potente e universale, intona i canti dei pescatori che si trasformano in preghiere per scatenarsi in un cunto che risuona coma un mantra, in cui le parole sbattono e le sillabe si rompono.
Un racconto fatto in punta di piedi ma con una potenza che sconquassa, e che acquista maggiore forza attraverso la musica nata dalle dita di Giulio Barocchi, suoni che si distorcono, che raccontano il non detto, dando voce al trauma e quindi all’inesprimibile.
L’Abisso è uno spettacolo che spoglia il teatro di tutti gli strati che nel tempo si sono accumulati sopra di esso, per recuperare le radici civili di quest’arte: tenere insieme una comunità, educarla alla Bellezza e all’Umanità.
Un sostantivo impopolare quest’ultimo, abolito insieme al concetto che rappresenta e trasformato anche in una colpa da quando la disumanità è diventata legge.
Ogni spostamento, ogni migrazione, ogni viaggio è una dimensione di speranza che merita di vivere e soprattutto di risorgere, come accade a quel ragazzo che sulle rive di Lampedusa si riprende e “vomita il mare” per tornare a nascere ancora una volta.
Diletta Maurizi