“La diversità non esiste” è il messaggio di “Rape rosse bucate”. Suona un po’ come una contraddizione se guardiamo al contesto attuale in cui viviamo…
La commedia “Rape rosse bucate”, in verità “anticommedia”, come viene scritto sulla locandina stessa, sarà al Teatro San Genesio di Roma fino al 18 novembre.
Lo spettacolo, messo in scena dalla Compagnia teatrale “Sogni di scena” risuona un po’ alle orecchie dello spettatore come un eco che porta con sé reminiscenze proprie del teatro dell’assurdo. Quest’ultimo, nato nel secondo dopoguerra, vuole rappresentare l’alienazione dell’uomo contemporaneo, la sua estraniazione rispetto al mondo in cui si trova. E “Rape rosse bucate” in modo ironico, delirante, a tratti surreale ed esasperato, mette in scena la società di oggi. Mette al centro l’essere umano con tutte le sue nevrosi. Sta allo spettatore porsi delle domande, senza per forza darsi delle risposte o cercare un’unica verità.
La scena si apre con un ballo rock anni “50, ed i personaggi appaiono subito caricaturali. I loro costumi sono pomposi (quasi carnevaleschi), il trucco è pesante (ci ricordano moltissimo i personaggi alla Tim Burton della “Sposa Cadavere”), i caratteri dei vari personaggi sono portati all’estremo. La scenografia è caratterizzata interamente da colori molto vivaci, quasi fluorescenti, e a spiccare è il rosso. Quel rosso che riprende il titolo della commedia, il rosso delle rape bucate. A più riprese, nel corso della messa in scena, vengono citate come ingrediente di bevande fumeggianti e dal gusto prelibato. Il rosso è il colore vivo per eccellenza: è il colore dell’amore ma è anche il colore del sangue. Porta con sé quindi elementi diametralmente opposti. Oltre al rosso che domina le pareti ed oltre a tutta la scenografia, anche gli arredi risultano anticonvenzionali. I quadri, ad esempio, non presentano raffigurazioni. Appese, soltanto le cornici.
Il primo atto immerge il pubblico in un luogo totalmente onirico, dove il tempo sembra essersi dilatato…E’ “La Rocca”…

I personaggi non hanno cognizione del tempo, e trascinano in questo turbine di nonsense anche lo spettatore, con un susseguirsi di dialoghi incoerenti e decisamente paradossali. Ci sono la moglie cadavere, la vedova allegra, il malato immaginario, il colonnello (che ha sempre una soluzione e va a caccia di zanzare), il morto depresso, il frate giocherellone, il maggiordomo “Goblin” (leggendaria figura folkloristica di alcuni paesi, solitamente appartenente al genere fantasy), il notaio nevrotico. A pensarci bene tutti questi personaggi calcano le manie, le angosce dell’essere umano. Sono diversi i temi che emergono: la paura della solitudine, il perfezionismo esasperato, la paura di morire… e non solo.
Tutti questi temi, tuttavia, non sono affrontati in maniera pesante o banale, bensì in un modo ironico e dissacrante, attraverso dei dialoghi totalmente capovolti.
“Vorrei tanto una bevanda bollente, visto il caldo afoso di questi giorni”, è solo una delle tante frasi assurde che vengono ripetute nel corso dei dialoghi. Difficile seguire i discorsi, quasi inutile cercare una logica o una qualche coerenza. E’ però nell’assurdità dei dialoghi che lo spettatore riesce a “centrarsi”. Sembra un paradosso, ma se ci pensiamo bene non lo è. Viviamo in schemi predefiniti, seguiamo in maniera quasi robotica le nostre routine quotidiane. Ma se solo per un attimo provassimo a vedere il mondo con altri occhi? Se solo per un momento facessimo il contrario di quello che facciamo abitualmente? Ci sembrerebbe davvero tutto così “strano”; “a-normale”?
La trama dello spettacolo “Rape rosse bucate” gira attorno a queste domande, e soprattutto ci fa riflettere sul significato nascosto che si cela dietro la parola “diversità”.
Il secondo atto rappresenta l’incontro tra due mondi opposti.

Entrano in scena i cosiddetti “normali”, una coppia formata da un giovane uomo “Mario Rossi” (e qui scatta subito la consuetudine di un uomo “qualunque”) e sua moglie “Anna”. La coppia è il riflesso della consuetudine (quella del pranzo della domenica, quella della casa splendidamente pulita, quella che “quando c’è un temporale ci vuole l’ombrello, ma anche l’impermeabile e gli stivali da pioggia”). Dall’altra parte, invece, gli “anormali“, una sorta di famiglia Addams nostrana.
Il divario tra i due mondi è netto. Nulla sembra far presagire che il finale può cambiare e che non per forza la diversità è sinonimo di rifiuto e mancanza di dialogo.
La conclusione dello spettacolo, infatti, senza svelare troppo, è decisamente inaspettata. La regista Emilia Miscio con tutta la compagnia di attori hanno saputo ben rappresentare i fantasmi che tormentano la società di oggi.
“Rape rosse bucate” è uno spettacolo che fa sicuramente riflettere sul significato dell’Altro, sul rispetto della libertà dell’Altro, e sul concetto di accoglienza. La regia lo fa senza cadere nel retorico e senza troppi giri di parole. Semplicemente.
Serena Cospito