La regia di Alessandro Preziosi realizza al Teatro Quirino un Don Giovanni in chiave virtuale, olografico e sprezzante.
Mai epoca è stata nei costumi e nelle idee più vicina al Don Giovanni come la nostra. Non perché preoccupata dalla degenerazione morale dei vizi, ma proprio perché al di là persino dal ritenerli tali e più divertita di altre dall’ipocrisia dei suoi presunti contrari, per quanto spesso loro vittima.
Coerentemente con questa affinità contemporanea, la regia di Alessandro Preziosi, la compagnia KHORA.teatro e l’adattamento di Tommaso Mattei realizzano l’opera in chiave fusion, prettamente esemplare del gusto e delle atmosfere ricercate dal teatro oggi. Così il Don Giovanni di Molière si presenta il 2 febbraio al palco del Teatro Quirino spazialmente e temporalmente decontestualizzato, dove i costumi d’epoca di Marta Crisolini Malatesta affondano nello spazio dalla dimensionalità alterata delle scene di Fabien Iliou, delle musiche di Andrea Farri e delle luci di Valerio Tiberi. Lo spettacolo è in collaborazione con il Teatro Stabile d’Abruzzo e andrà in scena a Roma fino al 14 febbraio.
Il viaggio del libertino è preso negli istanti della sua ultima grande corsa, dal ripudio della bella Donna Elvira, tolta al convento spezzando i voti di clausura, all’incontro coi fratelli di questa, desiderosi di vendicare l’onore della famiglia. Di seduzione in seduzione, dove la chiave del tranello sta nell’ambiguità che accomuna sedotta e seduttore, si giunge al mausoleo di pietra. Qui il sensualismo illuminista decide di frantumare l’ultimo tabù: invitare a cena la statua del defunto commendatore, da lui ucciso in un precedente duello. Un’offerta che la statua non avrà cuore di rifiutare.
“Che quadro! E questo non è altro che lo schizzo del personaggio.” |
La memoria rispetta con particolare dovizia il testo, accelerato per creare un ritmo incalzante dal carattere contemporaneo. La riuscita dell’operazione di adattamento trova il suo punto fondamentale nell’aver compreso di quale teatro abbia bisogno lo spettatore di oggi affinché si possa realizzare appieno quella fondamentale catarsi, secondo la sensibilità del terzo millennio. Il Don Giovanni viene immerso in uno spazio virtuale, dove i personaggi appaiono sul palco come ologrammi. I loro volti slavati e gli abiti bianchi sono identificati da precisi coni di luce che li separano dall’atmosfera bidimensionale del palco. Nell’oscurità liquida si tramandano silenzi angoscianti e la gestualità, ponderata fino all’eccesso, si ammanta di un ritualismo riflessivo. Dalle maniche merlettate si manifestano con squisita eleganza echi che ricordano il teatro No giapponese. I riflessi degli uomini si specchiano nella dimensione capovolta del pavimento di nero cristallo. La scenografia è un’unica e imponente parete interattiva, dove illusioni digitali prendono la forma di mari luminosi e di interni dalla prospettiva surreale. Colorate spirali di fumo attraversano le proiezioni, intervallate da ombre incombenti sulle entrate e le uscite, come figure dietro un velo di nebbia. Una cornice dorata incastona la teca del palco, completando lo splendido scherzo di un quadro in movimento. In questa realtà libertina, atemporale e cortigiana, Alessandro Preziosi sta d’incanto nei panni del Don Giovanni. La sua voce sa bene indugiare quanto basta nella languida effeminatezza di corte, per poi corrompere l’elegante travestimento con la coerenza tagliente di uno spirito lucido e calcolatore. La sua psiche è quella di un uomo navigante su un mare di tetra consapevolezza, in cui la furbizia è indissolubilmente legata ad un cupo godimento dei piaceri. Una morbidezza melliflua nasconde una crudezza disarmante, titanica. Il timorato servo Sganarello, interpretato da Nando Paone, sa essere uno squisito tripudio di qualunquismo religioso, gestito con una naturalezza che sa ammiccare alle maschere della commedia, senza dolerne in dignità. Le punte di diamante si riservano per il finale: energica ed esuberante è la scena dell’invito alla statua; l’ambigua visita di Donna Elvira, alias Lucrezia Guidone, sfoggia un pentimento voluttuoso. L’avvicinarsi della dannazione è un crescendo che si colora di un titanismo sensuale, sprezzante quanto languido, mentre il tempo scandisce una coreografia alienante. Rinnovato con questi inquietanti, affascinanti vestiti, il Don Giovanni di Molière riesce ancora una volta a catturare il respiro. A posteriori, si trasforma in un divertito e fiero omaggio ai tempi postmoderni, un po’ come il Faust goethiano ma senza approvazione divina, dove le fiamme del finale appaiono come un esilarante scherzo.
Gabriele Di Donfrancesco