Niente Ulisse al Quirino, solo abissi di donne abbandonate

Tarasco presenta la storia dei relitti lasciati da Ulisse nel suo maledetto viaggio.

Il 25 maggio 2016 al Teatro Quirino di Roma continua la Trilogia del Mito di Matteo Tarasco con Odissea: nessuno ritorna. Il progetto è prodotto in collaborazione con Gitiesse Artisti Riuniti e Arte e Spettacolo Domovoj. Il 24 è stato il turno di Iliade: le lacrime di Achille, il 26 di Eneide: ciascuno patisce la propria ombra. La storia che Tarasco ci propone è un reportage dal passato; protagoniste tre donne: i relitti che i grandi eroi omerici e virgiliani si lasciano alle spalle.
Teatro Quirino Odissea
Nausicaa, alias Lara Balbo, e il suo dolore in un abito da sposa fantasma. Foto su concessione di Matteo Nardone – matteonardone.com
Spazio scenico, regia, drammaturgia e luci rispondono a Tarasco, che sa costruire un ambiente unico, di grande impatto atmosferico e psicologico, quasi un utero marino, a cui contribuiscono gli ingegnosi costumi di Chiara Aversano. Il testo è una commistione di fonti diverse, dai classici a meno ovvie scelte contemporanee. Al di là dell’Odissea omerica troviamo la poesia di Margareth Atwood Elena di Troia balla sul bancone e il suo poema Circe/Fango (1960-70). C’è Cesare Pavese con estratti da Dialoghi con Leucò (1947) e si attinge anche al romanzo di Elisabeth Smart Sulle fiumane della Grand Central Station mi sono seduta e ho pianto (1945). Troviamo Itaca di Kavafis e infine alcuni versi originali dello stesso Tarasco. Così come viene riunito, il testo è stupendo.
Alla musica di una versione più lasciva e rallentata di Sweet Dreams degli Eurythmics, tre figure bianche entrano in scena, come in una processione di suore fantasma. Sono zombie candidi avvolti in abiti di plastica e cellophane, con la pelle scompostamente negletta fra gli stracci pendenti. Portano con sé le torce elettriche con cui scandagliano l’oscurità abissale del palco; sono angosciose creature, mute e sorridenti, dai sospiri letargici e amari. Cantano anch’esse, come le Muse, ma la voce è strozzata e riferisce di un doloroso stupore, quello della scoperta della vera natura di un uomo che le ha invase e poi deserte: il titanico, egoista Ulisse. C’è Circe che è Tiresia ed è Omero al tempo stesso, perché cieco, vittima e presentatore delle proprie e altrui esperienze di amori che prosciugano ed uccidono. Con lei Calipso e Nausicaa si aggirano a turno fra gli echi di profondità marine.
Tarasco sceglie per loro una recitazione vicina ad una mimica rituale, composta da movimenti meccanici e simbolici, ripetuti alla stregua di tic nervosi e combinati con una tensione costante, che permea l’intero lavoro. Il risultato indugia però troppo su un ritmo monotono, che mina l’espressività vocale con la forzatura prolungata di un lamento costante, dalle tinte greche, non sempre di felice riuscita né necessario. Eppure non si può non apprezzare lo spettacolo nel complesso: i proiettori illuminano il lungo telo che occupa il palco e contro il quale si esibiscono le attrici. I colori cangiano, intensi e marini, dal violetto al blu, all’acqua marina, all’oscurità più pesante. Le tonalità si fondono nel perlaceo del seno della ninfa Calipso, convinta da Zeus a lasciar ripartire l’eroe. Macabra e innocente è la danza in cerchio della giovane Nausicaa, la figlia del re Alcinoo che trovò Ulisse naufrago sulla spiaggia. Vi è in loro una forza strana, quella di chi ha avuto il coraggio di donare la propria fertilità ad un amante vampiro. Hanno avuto la possanza di morire e tormentare se stesse e il mondo nella morte. Così la maga Circe, interpretata da Giselle Martino, è stata conquistata dall’uomo immune al suo potere, mentre Calipso, personificata da Ania Rizzi Bogdan, è stata lasciata inaridita con un “piccolo bastardo” in grembo. Nausicaa, vivificata da Lara Balbo, è stata privata della morbida innocenza e stuprata da sentimenti nuovi che era incapace di controllare. Proprio Balbo ci conquista con la sua presenza scenica e la sua interpretazione, più dinamica e carica delle precedenti. Dopo di lei si conclude lo spettacolo, della durata di cinquanta minuti. Ulisse se n’è andato. Aveva promesso di restare, ma le sue amanti le ha abbandonate e i relitti restano, eterni ed indistruttibili nella morte. Fra le rocce gli abissi risuonano con richiami di vendicative angosce.
Odissea: nessuno ritorna di Tarasco ha tutte le qualità necessarie per infestare i cuori degli spettatori, ma si blocca ad un passo della meta: incontra il gusto e penetra nell’immaginario del pubblico con stupore e angoscia, ma perde per mancanza di variazione nel ritmo. Peccato, perché c’è grande poesia tra volti, costumi, parole e movimento.
Gabriele Di Donfrancesco


Nato a Roma nel 1995 da famiglia italo-guatemalteca, è un cittadino di questo mondo che studia Lingue e Lettere Straniere alla Sapienza. Si è diplomato al liceo classico Aristofane ed ama la cosa pubblica. Vorrebbe aver letto tutto e aspira un giorno ad essere sintetico. Tra le sue passioni troviamo il riciclo, le belle persone, la buona musica, i viaggi low cost, il teatro d'avanguardia e la coerenza.

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