Lea Garofalo, “La Bastarda” che ha spaventato la mafia

Il richiamo al coraggio di Lea Garofalo è la sua muta vittoria.

Sappiamo dov’è la mafia. È in tutta Italia. Nelle nostre città e fra le nostre strade. Una presenza muta e putrida, come le risate spocchiose e impertinenti di un uomo bestia, che insozza con la sua vita la società che lo ospita. È un fenomeno parassitario, che come ogni organismo reagisce per non farsi schiacciare. Un gruppo di codardi che nascondono la loro inettitudine dietro una pistola. Per questo è fondamentale che la società civile ne parli e, facendolo, raccolga la forza per difendersi. Ecco allora che lo spettacolo di cui stiamo per parlare si pone come una delle dimostrazioni di consapevolezza e sicurezza della comunità, non disposta a vivere secondo le regole mafiose. Al centro del lavoro debuttato al Teatro Centrale Preneste di Roma, in questa città degradata da una corruzione silenziosa, vi è la storia di Lea Garofalo. Siamo a Milano, ma è una metropoli diversa. È quella sporca di cui nessuno parla e che facciamo finta di non vedere. È il nord della mafia e dell’Ndrangheta. È quanto la regia di Rosario Mastrota e la Compagnia Ragli scelgono di mostrare sotto le luci del palco con il titolo: “La Bastarda. Una vita coraggiosa”.

La paura di un nemico che è ovunque ed arriva senza farsi sentire. Questa è la strategia mafiosa. La collettività può combatterla. La collettività è ovunque, non la mafia.

Lea Garofalo nasce come donna sottomessa, nel contesto maschilista e chiuso di una famiglia dell’Ndrangheta. Sin dall’infanzia il suo volto è adombrato da figure sporche di sangue ed in ogni silenzio si nasconde la traccia di un morto. Come sua madre. Perché le donne, come ci spiega bene Paolo De Chiara prima dello spettacolo, nella realtà dell’Ndrangheta sono presenze scomode. Interrompono un legame tutto maschile, fatto di omicidi e prove. Una ritualistica ad hoc, con la propria mentalità e in cui lei, la femmina, spezza la fratellanza. È estranea; da controllare; con una sensibilità anomala, capovolta. Per natura non è morte; è vita. Qui cresce Lea Garofalo, fino al matrimonio con Carlo Cosco, ‘ndranghetista, e alla trappola della violenza. Decisa a salvare la figlia da questa dimensione risucchiante, scappa con la bambina e denuncia la famiglia. Da quel momento è “la Bastarda”, la traditrice, l’esclusa da ammazzare. Ma per Lea è solo un motivo di orgoglio. La sua esistenza diventa un simbolo, proprio perché bastarda vuol dire aver rinnegato la sozzura mafiosa. Per lo Stato però non signifca niente. Garofalo è abbandonata. La fine viene più volte a bussare alla sua porta, fin quando disperata non si è fatta trovare lei stessa.

Nello spettacolo in questione, ci muoviamo per un palco allestito simbolicamente con tre grandi lavatrici. Dietro i loro oblò scorrono le fasi della vita di Lea Garofalo, come le trame che cercarono di afferrarla negli ultimi anni. Oggetti, in fondo, grottescamente comuni, ispiratori di un senso di quotidianeità stravolto nel puzzo di morte ed acido che circonda un cadavere disciolto. Fu proprio per una lavatrice rotta che Lea Garofalo rischiò di essere rapita per la prima volta. A salvarla fu solo la presenza della figlia. Così, in un’alternarsi di monologhi introspettivi e figure oscure, la storia di Garofalo diventa una parabola; ancora una volta la fiaba del bene e del male, ma senza lieto fine. È una linea aperta e resta nelle nostre mani come vicenda che si tramanda di generazione in generazione. Si mischiano voci, episodi e la messa in scena si fa divulgazione, analisi: un gettare chiarezza sulla banalità raccapricciante di una dimensione. È una setta dotata di un proprio codice e solo per tal motivo ritenuta troppo spesso inviolabile. La vita di Lea è donata nel nome di un coraggio collettivo, in una lotta in cui lo stesso governo funge da figura ambigua e mai del tutto positiva. È un impegno della comunità a rifiutare il ricatto e parlare, parlare e parlare. Garofalo, come altri prima di lei, l’hanno ripetuto: la mafia è una realtà codarda. Riderne e ancor meglio diffondere il vero senso del suo nome svelano un’impotenza fatta di pistole. Ma le armi non possono sconfiggere la collettività. Questa è la nostra offensiva. Il nostro rendere giustizia a chi contro tale schiavitù ha lottato e lotta. Così la decisione della Compagnia Ragli di mettere in scena uno spettacolo di tale attualità è fondamentale. Le vicende di Lea Garofalo e la sua fine risalgono appena al 2009. È il presente; ce lo ricorda di nuovo Mafia Capitale. Allora si può sorvolare sull’inesperienza di giovani leve del teatro e sulle imperfezioni che la messa in scena trasporta, lodando il coraggio, l’impegno e la forza informativa del loro lavoro. Un plauso speciale va all’interpretazione di Dalila Cozzolino nei panni di Lea. Donna giovane, la sua recitazione ne trasmette le incertezze e l’esplosiva volontà materna. Quella vocazione alla protezione del futuro della sua bambina, che grida stridente l’orrore della propria morte con l’orgoglio di chi si è resa bastarda.
La compagnia ha espresso nel tempo un forte interesse ed impegno nell’occuparsi della smitizzazione della mafia. Per maggiori informazioni, rimandiamo al loro sito ufficiale:
Gabriele Di Donfrancesco
Nato a Roma nel 1995 da famiglia italo-guatemalteca, è un cittadino di questo mondo che studia Lingue e Lettere Straniere alla Sapienza. Si è diplomato al liceo classico Aristofane ed ama la cosa pubblica. Vorrebbe aver letto tutto e aspira un giorno ad essere sintetico. Tra le sue passioni troviamo il riciclo, le belle persone, la buona musica, i viaggi low cost, il teatro d'avanguardia e la coerenza.

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