Un tuffo in un’emotività fatta di movimenti. Rage Douce.
Continua il nostro racconto della serata del 20 novembre al Teatro Furio Camillo di Roma, per la rassegna di circo teatro Battiti. Abbiamo parlato nel precedente articolo dell’introduzione musicale ad opera dei Circo Biloba. Trattiamo adesso dello spettacolo. Questo s’intitola “Rage Douce”, di e con la giovane Mariangela Giombini della compagnia Controtempo. Nata dal lavoro di due persone come sperimentazione sul significato e la messa in atto del movimento, la performance si è dovuta adattare ad essere rappresentata da un unico artista. Il carattere del suo dinamismo non trova una forma precisa, come d’altronde un corpo che si sposta e cambia costantemente posizione non può restare fisso. Eppure, così ci viene assicurato, ogni esibizione raggiunge una sua completezza, coerente nel continuo trasformarsi delle posizioni.
Mariangela Giombini in uno dei momenti della sua performance. |
A presentarsi è una donna dallo sguardo fisso, cupo. Qualcosa deve averla turbata orribilmente e la sua agilità si esprime in gesti scomposti, fulminei ma anche spezzati. È un’armonia che si manifesta nel suo contrario, come se una tempesta emotiva di memorie e vissuti dalle conseguenze disastrose prendesse forma in una danza automatizzata. La sua maniera è industriale nella complessità del movimento: duro, meccanico, metallico; eppure incredibilmente elastico. L’artista arranca su se stessa in cerca di una posa stabile, per poi finire incastrata nelle caverne che le sue gambe e le sue braccia costruiscono spostandosi. Esanime, scossa da tremiti rapidi e disallineati, questa figura turbata non teme di scagliarsi con meraviglia in aria; appesa, quasi posseduta, evocata. È come se stesse scalando e riscoprendo forme più inquietanti di movimento. Le sue parole sono espressioni corporee ed emozioni stridenti tra il terrore e la volontà ferrea di una guerra col proprio ego. Questa figura di una narrazione in movimento cerca di sottrarsi ad una violenza che le è rimasta addosso e si supporta, si tiene, si cerca nell’integrità di un abbraccio. Tuttavia sempre si perde nel buio, per riscuotersi ancora. Non riesce a concedersi una carezza che la liberi dal vuoto e le sue mani possono solo sfiorare distratte le vesti. La sua condizione psicologica è bloccata in un vortice da cui non riesce ad uscire. La tensione continua nello spazio più raccolto dell’altezza, prima di calare ancora in quella zona d’ombra, dove i piedi possono avventurarsi sulle punte, come dimentichi del contatto col suolo. Allora, nel delicato ondeggiare della camicia, solo un attimo permette una pausa e in quella pausa, la conclusione della sperimentazione di una serata.
Gabriele Di Donfrancesco