Emigranti e la vita nelle profondità di una società di schiavi.
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I due compagni di stanza sapranno arrivare ad annichilirsi l’un l’altro, pur di impedirsi a vicenda la partenza dallo scantinato. |
I personaggi sono due. Entrambi uomini adulti, uno è l’opposto dell’altro. La divisione nella camera rende il contrasto di un’evidenza quasi banalizzante, se non fosse per il supporto intenso ed originale del testo di Slawomir Mrozek. Il primo uomo è lo “zotico”, infantile e ingenuo; animalesco e avido. Una figura che sembra parlare dal passato più che dal presente, ma che con fedeltà rappresenta un tipo umano e ne dà grande spessore comportamentale, con precisione di pensiero. La recitazione di Giancarlo Fares è una mimesi quasi perfetta ed estremamente plastica, di cui si apprezza una maniera elastica e studiata. Meno interessante il secondo opposto: un intellettuale di estrazione sociale alta, borioso e superbo, ma patetico nel senso comune del termine. L’interpretazione di Marco Bianchi appare forzata né in grado di porsi sul medesimo piano di espressività. Esule politico per costrizione o volontà propria, questa figura è persa in una procrastinazione eterna, senza occupare il suo tempo se non con un intenso studio di carte. A prima vista mirato, il suo lavoro è privo di valore, perso nel tentativo di trasmettere al mondo un’acquisita nozione di schiavitù. Questo concetto è il perno dello spettacolo. Entrambi i personaggi sono schiavi e la loro esistenza è metafora di una condizione ancor più generale. Sono uno il nemico dell’altro, bloccati in quello scantinato da un attaccamento perverso e maniaco verso una non-vita. Per lo “zotico” è l’ossessione dell’accumulo di soldi; per il superbo è una presunzione frenante e la necessità di colmare il proprio nulla con una compagnia. A livello assoluto, è quasi una condizione naturale, dove ogni realtà costituita a nostro sostegno o completamento finisce per trasformarsi in una forma di schiavitù ad personam, in un bisogno psicologico dal carattere compulsivo. Ogni volta il miraggio di una partenza, come di una fuga, si risolve in un inevitabile restare.
(Foto di Manuela Giusto)