La fiaba, le “Rovine del Tempo” e Artemisia Gentileschi
“Le macerie sono un prodotto del tempo: le Rovine del Tempo.“
Ognuna è un ricordo.
Al
Teatro Hamlet è tornato dal 27 novembre al 6 dicembre lo spettacolo “Le Rovine del Tempo”. Realizzato da Teresa Ruggeri e Julia Varley, il suo testo si compone di un quadro di brani di più autori e campi. A fare da argomento centrale è il celebre romanzo di
Anna Banti, “Artemisia”, a sua volta basato sulla figura omonima di una delle prime pittrici nella storia dell’arte: Artemisia Gentileschi. Vede in scena Teresa Ruggeri, mentre domina da sola la scenografia e le necessità dei singoli personaggi di cui si veste.
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Lo spettacolo ha ottenuto un riconoscimento internazionale della propria qualità sbarcando in Danimarca. |
C’è una sola donna in penombra. Corre per il palco tenendo in mano l’unica luce della sala. Scivola fra gli strumenti di un’immaginaria conferenza e li trasforma nelle espressioni di un incontro, che dalle parole si mimetizza nel corpo e porta nello stesso spazio tre donne. Ciascuna è un tempo che mai incrocia l’altro e soltanto ne parla, o forse parla di se stesso proiettandosi sull’immagine della rovina del precedente. I tacchi ticchettano sul palco di legno e su questi vola da un capo all’altro la conferenziera, decisa a tenere il proprio discorso su Anna Banti e ossessionata dal tempo. Suo è il controllo del proiettore, degli abiti nascosti in altri abiti; delle luci portatili che affiorano dal buio. Sono le macchine che trasformano l’argomento in personaggio e il documento nella magia di una vita che canta leggiadra fra veli di stoffa. Si parla di Anna Banti e lei compare sulla scena con un semplice gesto: lo slacciarsi di un cappotto rivela un’anziana spaurita in vestaglia. Anna pensa alla sua Artemisia e le parla, da un belvedere da cui si vede tutta Firenze bruciare per le mine lasciate dai tedeschi. E così la sua casa e sotto le macerie il primo manoscritto di Artemisia. È il 1944. Mentre la scrittrice si prepara alla riscrittura di quanto è andato perduto, l’attrice abbandona quell’epoca e scivola indietro. Si copre con un lenzuolo, un velo seicentesco, e diventa la pittrice stessa. È un’Artemisia che canta e dipinge e si racconta nei suoi quadri. Nella tela del proprio autoritratto si confonde il volto, preso in pieno dal cono di luce e colori dell’immagine proiettata. È sicura, ferma, ma anche gentile fanciulla, orribilmente colpita dallo stupro e torturata al processo per saggiarne la verità. Dialoga con Anna Banti e Anna con lei, affettuosa come una madre. Due donne immerse nel tempo, presto riassunte nelle parole di chi, dall’alto del proprio presente, si sforza a tenere una conferenza, lambita da un buio denso come l’oblio.
Teresa Ruggeri si trasforma nel paesaggio, nello spirito movimentato di ciò che descrive. La sua personalità è dinamica e sbarazzina quanto ferrea ed ancestrale. In lei le tre donne si fondono e il valore delle loro esperienze e delle parole crea una linea di connessione che attraversa il tempo e ne veicola le verità. Caliamo nelle profondità dell’esistenza umana: quel continuo nascere e rinascere, presentarsi e ripresentarsi di generazioni nel propagarsi di vita e civiltà attraverso i secoli. Ci si guarda con l’occhio del tempo, spauriti e sconvolti dall’assoluta incomprensibilità del concetto, nell’inesorabile corsa dell’ordine e dell’entropia, di consumo e trasformazione. Anna Banti parla alla sua Artemisia dall’alto del doloroso novecento e noi ancora più in là, in questo terzo millennio dal futuro perduto, mentre il presente corrode la fantasia e spazza le prospettive con la delusione di un cambiamento che non si riesce a ingranare. Ma Artemisia è lì, lontana da queste preoccupazioni e donna. Si ribella e si spoglia dei preconcetti della scrittrice, della voce della conferenziera. È la pittrice che da giovinetta fu stuprata. È la voce degli atti del processo e l’immaginazione nostra, che “crea distorsioni nella Storia” laddove questa non arriva. Noi riempiamo i buchi e formiamo nuovamente il tempo. Lo arricchiamo e lo torciamo e ci finiamo dentro, a vedere le voci di un’attrice che si cambia di vestito in vestito in altra donna; presenza di epoche e affettuosa figura che come fantasma si dona a noi per raccontare. Corre sui tacchi o cammina sui trampoli di un abito seicentesco, per poi accecarsi nella luce dei proiettori e cavare infine il sangue dal tempo stesso, primo distorsore e creatore di cose umane.
Tanto della recitazione di Ruggeri e della voce di Anna Banti ricordano Alba de Cespedes: quella ricerca dell’intimo nel dialogo fra donne, come partecipi di una comunità che attraversa il singolo e il passato, la vita e la morte. Assistiamo allora ad uno spettacolo magico come una fiaba e carico di realtà quanto un documentario: appassionato a mo’ di quadro di pittrice; impalpabile per le proiezioni dei volti nell’oscurità del tempo.
Gabriele Di Donfrancesco