Lopachin: “Ho visto una commedia ed era divertentissima.” Ljuba: “E magari non c’era niente di divertente!“
Dopo aver replicato il proprio successo al Teatro Aleksandrinskij di San Pietroburgo, Il Giardino dei Ciliegi approda al Teatro Quirino di Roma. È un viaggio iniziato al Napoli Teatro Festival 2014 e protratto in giro per l’Italia. Stavolta Cechov passa per le mani della regia di Luca De Fusco. Alla base dell’approccio al testo vi è l’intuizione, condivisa con Andrej Konchalovskij, di rilevare una decadente affinità tra l’aristocrazia russa e quella del meridione italiano. Le due realtà sono vicine nell’incapacità di adattarsi all’avanzare della società borghese. Sapranno solo frantumarsi all’interno di una comunità in cui non significheranno più nulla. La vicenda si svolge al tramonto dell’Ottocento e immortala il passaggio da una realtà all’altra. Nello specifico, è la storia di una famiglia aristocratica, riunita nuovamente per l’estate nella villa di campagna. È una casa circondata da un boschetto, che ne è motivo del nome e la rende famosa nella regione. Un giardino di ciliegi, per l’appunto. Nonostante il mantenimento delle apparenze, la loro fortuna è in rovina e il luogo è stato messo all’asta per coprire i debiti. Di fronte allo sciacallaggio della nascente borghesia, la famiglia non saprà far altro che assistere, austera e sorda, al proprio brusco crollo. La parlata meridionale, scelta a completamento della trasposizione ambientale, è una leggera presenza, che si fa sentire timida, solo ogni tanto e con eleganza.
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“E ricordo che sono tutti contenti, ma di che cosa nemmeno loro lo sanno.“ |
L’adattamento di Luca De Fusco si impegna a rappresentare un panorama di gesso, dai bordi sbriciolati ed erosi nel tempo. Questa scenografia di Maurizio Balò gioca con le crepe e le suggestioni di una villa nostrana, nel biancore di una casa sul mare. Placidamente in rovina, troviamo sul palco un cortile delineato da alte pareti. Una scala fatiscente conduce al suo interno; un alternarsi di oggetti rende lo spazio aperto sul giardino o chiuso, come una grande stanza signorile. Vi sono intrappolate figure di cera, quasi fantasmi sbiaditi, la cui compostezza si avvicina a dei mobili coperti da spessi lenzuoli. È una realtà in cui ogni elemento è bianco, in un’atmosfera che ricorda il candore della memoria ma anche quella monotonia neutrale, ispirante morte. È come se tutto fosse stato coperto da cenere vulcanica. Le musiche originali di Ran Bagno si inseriscono nel quadro come le note gelate di un carillon, i cui ingranaggi, messi in moto dalla melodia di punte d’ottone, trascinano pupazzi di metallo. I personaggi sono dunque giocattoli danzanti in una coreografia dal senso comico affogato nell’inquietudine. Il loro limbo è una trappola da cui non possono sottrarsi, mentre ruotano sul proprio corpo, ignorandosi l’uno con l’altro per nascondere il senso di un fallimento che non è solo personale, ma di classe. L’epoca si riflette nel loro microcosmo e con eleganza si completa degli squisiti costumi, bianchi anch’essi, di Maurizio Millenotti. Nel pietrificante candore, ogni vita sul palco è preda di se stessa e del proprio passato, in un continuo parlare che maschera un sottotesto di ben altre vicende. Sono dei trascorsi che sfuggono al controllo e si scaricano nella forza istintiva di un volto, nel tremore di un gesto; nello sfuggire di un dettaglio. Assistiamo infatti ad un esito, non ad una vicenda. Siamo spettatori del finale di una macchina già avviata al suo approdo e mandata avanti per inerzia. Troviamo la madre, Ljuba, lo zio, figli, nipoti, servi. Poi Lopachin, l’unico estraneo a questo mondo di vetro e dotato della forza per spezzarne il pallore. È il personaggio interpretato da Claudio di Palma: il borghese nato dal nulla e col lavoro arrivato in cima alla catena sociale. Davanti al suo pragmatismo la poetica aristocrazia si frantuma. È un Lopachin dall’espressività potente. Un divoratore con la biacca sciolta sul volto e la risata ambigua, selvaggia. Quella di un amico che si vendica sugli antenati degli altri e non può non farlo, perché è il suo momento: l’ora dello scorpione. L’intrattenimento allora si manifesta nella fatalità. Le parole cambiano tono espressivo a metà frase: Lopachin, il figlio dei servi di un tempo, ha comprato il Giardino e lo abbatterà e con esso la casa tutta. Costruirà villini. I ciliegi cadranno uno ad uno davanti ad una Ljuba imperscrutabile e sensuale, interpretata dalla splendida Gaia Aprea. Il suo volto ammutolisce nell’incredulità: una meravigliosa bambola di un tempo che non potrà più tornare, ferma sulle note di un valzer crudele e di una scala ghiacciata.
Gabriele Di Donfrancesco
@GabriDDC