Arriva dai campi, emerge dal grano; papaveri rossi, rosso lo scialle e il cuore malato. Malato il suo cuore o quello degli altri? Lei la Lupa o lupo il mondo?
Un terrazzamento biondo di spighe è ricavato nel palco, con un cielo curvo come la pagina di un libro illustrato. Le figure emergono dal grano ed è proprio quest’ultimo a dettare l’impressione dello scorrere del tempo. Sono le messi di una realtà contadina immersa in uno stallo surreale. Quella Sicilia percepita con l’occhio dell’osservatore silente, tirata da Verga a Vittorini e carica di illusioni e tramonti che spezzano l’orizzontalità del passare dei giorni. La Lupa torna così al Teatro Quirino, senza pretese di incredibili drammi, ma nella linearità di una vicenda di cuore e comunità. Lina Sastri veste i panni della ‘Gna Pina, la tanto maledetta Lupa, con Giuseppe Zeno a fare da uomo del desiderio: Nanni. La regia di Guglielmo Ferro veglia dall’alto e la scenografia di Françoise Raybaud attira lo sguardo tutto intorno.
“Vediamo se ti basta il cuore.“ |
Siccome non bisogna dare nulla per scontato, per chi non lo sapesse la storia in questione è un po’ una favola di vita reale: un documento orribile di qualcosa che potrebbe essere successo, connotato da una lampeggiante oscurità; la fame dell’istinto, del sesso. C’è una donna e la sua passione dirompente, la Lupa divora mariti, ed un uomo, un contadino, Nanni. Lui si confronta ambiguo con l’improvvisa volontà di lei di donarsi a lui; la scelta di un compagno che non ricambia si trasforma in un’ossessione fatale. Costretta la figlia a sposarlo al posto suo, resta in casa ad insidiare la salute del matrimonio. Non è forse lei la padrona della casa? E mentre il paese spettegola di maledizioni con la malizia di una massa di comari, lei tornerà ad ossessionare Nanni. Solo che stavolta lo troverà con la scure fra le mani. Se questa è la novella, l’adattamento teatrale è meno rapido, diluito, più semplice nella sua realtà. Quando l’istinto fa una richiesta che fuoriesce dal ritmo della comunità, non c’è scampo ad un destino crudele da ciascuno imposto.
Lina Sastri è una Lupa quasi spagnola, con l’aria sensuale di un tango ammantato dal sudore del lavoro e dalla brezza della sera. Lungo è il vestito nero. Eppure, sebbene il sapore dell’isola profumi del sentore dei campi e dell’imprevedibile esplosione dei balli, non è del tutto Sicilia. È una scelta intelligente quella di limitare l’esasperazione del carattere dell’ambiente. Senza scadere in una ridicola parodia di se stessa, la scenografia e la voce dei personaggi non appesantisce il senso di appartenenza della storia. La Lupa è una novella italiana e italiana è la sua prosa, come ha spiegato Lina Sastri, intervistata il 19 novembre da Rai News 24. Così, di fronte ad un cast non del tutto originario dei luoghi, si è optato per una versione in cui il dialetto fosse più un’intonazione. Tutt’al più un richiamo leggero o un gesto, un andamento del passo. Insomma, piuttosto che imitare con tristi effetti qualcosa di non proprio, è stata vincente la tattica di rendere la parlata una libera componente della personalità di ciascun attore.
La Lupa però non perde il colore: rimane la sensualità struggente di una creatura innamorata, adulta nel corpo ma indifesa nella purezza del sentimento e del suo abbandono. Subdola nell’azione, vendicativa a suo modo, vive in una disperata preghiera del corpo, rivolta alla natura del paesaggio piuttosto che al dio del paese. L’uomo che ha scelto ha il tratto, la posa, la voce ossessionante. Non è un amore passivo né lei è debole, se non forse verso la comunità stessa, con la quale domina l’incomunicabilità di due linguaggi. Come ha raccontato Lina Sastri alle telecamere di Rai News, “[…] chi è libero a volte paga la sua libertà anche con la vita.“
Nanni e la Lupa sono anime calde, su uno sfondo dorato del quale solo loro paiono percepirne le carezze eccitanti del grano che danza. È quella fatica, quella realtà dolorante di Verga che qui si trasforma in un’altra faccia, salvata dalla rigida staticità della fede, dall’ottusità dei commenti, di cui comunque è vittima. Ecco, il lavoro produce una carica che dalla stanchezza evolve al contatto irresistibile tra vesti e corpi. Ardono, tesi e fessi dalla giornata, ma vivi ancora più in dentro. L’aria si vivifica di struggenti canzoni ed è poesia di colori artificiali sopra l’amore isolato della Lupa. Lei ed il suo canto di madre, di fertilità non ricambiata.
“Maledetto chi si pente.” E in fondo è un maledettismo fatale ad animare il suo amore, dalle radici così profondamente scavate nell’antica forza delle identità umane.
Ci sono però degli elementi nella messa in scena che lasciano perplessi. Un dubbio che trova conferma nei commenti del pubblico. L’audio si rivela un problema. È vero: non si può pretendere dalla voce di tutti la sensibilità di poter fare a meno dei microfoni, spesso indispensabili per motivi di acustica. Eppure, a voler essere franchi, stavolta le parole troppo spesso si confondono; manca la nitidezza del suono per poterlo comprendere fino all’ultima lettera pronunciata. Nel complesso, il fenomeno frustra il ritmo, l’ascolto e forse anche l’esecuzione. È difficile dire se sia un problema tecnico o anche solo un incidente. Nel dubbio, la Lupa resta la Lupa, ma capita che a volte la sua voce non arrivi.
Gabriele Di Donfrancesco
@GabriDDC