Edoardo Sylos Labini al Quirino con “Nerone, duemila anni di calunnie”

Uno spettacolo intenso, musicalmente grandioso e magistralmente recitato: Nerone, duemila anni di calunnie, basato sull’omonimo saggio di Massimo fini e interpretato da Edoardo Sylos Labini, sarà in scena al Quirino fino al 31 gennaio.

Lucio Domizio Enobarbo fu il quinto ed ultimo imperatore della dinastia giulio-claudia. Succedette all’imperatore Claudio, suo padre adottivo, nel 54 e, dopo un primo periodo di governo irreprensibile (grazie anche alla vicinanza del filosofo Seneca, suo precettore), divenne tristemente famoso per essere ritenuto lo spietato artefice dell’incendio di Roma, uno degli episodi più famosi nella storia della Capitale.

Ma chi fu veramente lo spietato e pazzo imperatore che, si dice, mentre Roma bruciava, suonava la lira sul colle più alto del Palatino? E perché sul suo conto continuarono a girare le voci più infamanti, dall’assassinio del fratello Britannico, all’omicidio su commissione della madre Agrippina, al calcio dato alla moglie Poppea incinta che ne provocò la morte fra atroci dolori, alla congiura di Pisone, duramente repressa con la morte di tutti i congiurati (fra cui, sembra, lo stesso Seneca), fino alla condanna a morte dei primi cristiani di Roma, che, di contro, videro in lui niente di meno che l’ombra dell’Anticristo?
A queste “calunnie”, lo spettacolo messo in scena al Quirino –  Nerone, duemila anni di calunnie – prova a dare una risposta, anzi più di una risposta. Edoardo Sylos Labini assume su di se il ruolo di Nerone, in continua oscillazione tra il gigionismo, l’equilibrio delle riforme attuate almeno all’inizio, la sentita vicinanza per il popolino, l’amore per Poppea, il sentirsi schiacciato dal peso di una madre troppo presente e invadente, e un precettore, Seneca, forse troppo filosofo, forse non proprio così filosofo. Anche la scena e l’ambientazione oscillano di continuo tra passato e presente: una corte piena di escort, di personaggi fortemente ambigui, di senatori in giacca e cravatta che non accettano di veder diminuiti i loro privilegi. Il malumore serpeggia, le voci si accendono, le congiure prendono forma.

La vita di Nerone è vista e vissuta attraverso una cortina di quadri immaginifici dove il Nostro cerca di far emergere, inutilmente, una personalità troppo debole per contrastare in modo efficace personalità più carismatiche di lui. Dalla madre Agrippina (Fiorella Rubino), donna bellissima, spregiudicata e immorale, alla moglie Poppea (Dajana Roncione), al precettore Seneca (Sebastiano Tringali), forse di gran lunga il personaggio più ambiguo della corte Neroniana. 

Sullo sfondo del dramma, che, passo dopo passo, vediamo prendere tragicamente forma, assiste, muto spettatore e forse unico e sentito partecipe dell’ascesa e discesa di Nerone, un mimo (Paul Vallery). 

Così, tra farsa e aspirazione all’immortalità, troppo osannato e troppo presto ribaltato dal trono, la figura di Nerone viene a delinearsi quasi per contrasto: nel buio della sua solitudine, le voce dei suoi presunti misfatti si mescolano agli allucinati sensi di colpa che hanno la forma e l’angoscioso richiamo della madre morta. E mentre tutto intorno a lui si fa precipitosamente vicino, e lo scalpitio dei cavalli man mano sempre più assordante (la fine è ineluttabile, assordante, paurosa), Nerone realizza, da ultimo, la farsa della sua vita: non più principe, mai imperatore; ma solo un interprete, incolpevole, di un dramma che altri scrissero e interpretarono con lui e insieme a lui.

Quale attore muore con me“, sospira, nel suo ultimo, lucidissimo monologo Edoardo Sylos Labini, strappandosi emblematicamente la parrucca e lasciando che il buio del sipario inghiotta per sempre Nerone e la sua solitudine. 
Nerone, duemila anni di calunnie è uno spettacolo visivamente importante, visivamente imponente sulla parabola discendente di uno degli imperatori più controversi della storia. E se il dramma, giustamente, non riesce appieno a scostare le luci e le ombre che avvolsero i suoi quattordici anni di principato, pure non riesce a contrastare pienamente quelle calunnie che lo colpirono già in vita (eccezione fatta per l’incendio di Roma e l’omicidio di Britannico). Ma è lo stesso Nerone a non voler ascoltare: lui è un artista e come artista vive e si nutre dei suoi drammi. Non sarà Poppea (in questa assoluta e inedita veste di eroina) a farlo retrocedere dai suoi sproloqui deliranti, non sarà Agrippina, non sarà l’ambiguità di Seneca. Non sarà nemmeno Roma, prima amata e poi odiata e temuta, involontaria spettatrice dei suoi monologhi.

La bravura degli interpreti, la bellezza silenziosa della scenografia, la colonna sonora ineccepibile che accompagna una pièce assolutamente consigliata, contribuisce a rendere Nerone, duemila anni di calunnie uno degli spettacoli più interessanti in circolazione.
Forse non risponderà, lo abbiamo detto, alle molte controversie che ancora avvolgono la figura dell’ultimo grande protagonista della dinastia giulio-claudia.  E forse, alla fine, non sarà nemmeno così importante capire.

Chiara Amati

COMMENTA QUESTA DOSE DI CULTURA

Lascia un commento!
Inserisci il tuo nome qui