“Chi tra noi due sta immaginando l’altro?” Jackson Pollock in scena

Jackson Pollock diventa il protagonista della sua morte, spaesato sul palco del Teatro dei Conciatori.

Esistono luoghi comuni di ogni genere e in molti ambiti. Uno di questi è la tendenza ad attribuire la fama dei buoni spettacoli unicamente ai teatri più grandi. Una sciocca equivalenza. La nostra redazione non è mai stata di questo parere. Il gioiello più grande può nascondersi nell’angolo più piccolo, dai posti limitati, dove lo spettatore trova una memoria preziosa che conserverà gelosamente nel tempo. La sera del 4 ottobre è stata uno di questi momenti. Al Teatro dei Conciatori di Roma è andata in scena l’ultima replica di “Conversazione sul luogo dell’incidente (Trasfigurazione cruenta di Jackson Pollock)“, regia e testo di Giuseppe Manfridi, con Giuseppe Manfridi e Nelly Jensen. Ad introdurre la rappresentazione troviamo un video dal ritmo sincopato, ad opera di Stefano Sparapano. Fa da cornice allo spettacolo, producendo un piacevole incontro tra più arti visive: un amalgama di pittura, teatro, cinema e realtà. Le animazioni fluide ricordano i colori di una tela di Pollock.
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“Chi tra noi due sta immaginando l’altro?”

La memoria frammentaria di una fine violenta diventa una nebbia concreta nel piccolo spazio di un bosco, incastrato tra un burrone ed una carreggiata. È un limbo in cui confusione e volontà si alleano nel nascondersi l’una con l’altra. Coperta da entrambe, la verità. Quella di un fatto che già conosciamo: una “trasfigurazione cruenta”, una morte improvvisa. Una tragedia che fa parte della storia personale del pittore. Ne è il capolinea. È accaduta, ce l’aspettiamo, eppure non perde la forza perturbante di un colpo di scena inaspettato, proprio perché perfettamente giostrato fin dal primo istante. Jackson Pollock è lì, un animo vagante e timoroso d’infrangere la fumosa realtà che lo avvolge. Si tratta di qualche albero, del profilo scuro della notte; dei segni di una tragedia. Sono dettagli sparsi tutto intorno, ma accuratamente evitati, per impedire che una disperazione insostenibile inondi una psiche fuggita in un’incertezza consolatoria. Un Pollock, insomma, rifugiato nei concetti della sua stessa arte. Come se, in piedi di fronte alla tela, potesse ancora tenere alto un pennello e schizzare il colore attraverso lo spazio. Distanza, la parola chiave. “Tutto avviene per colmare distanze, tutto.” Solo che stavolta non c’è nulla da riempire. L’ultima misura, la vita, è stata consumata e nascondersi in un intervallo già colmato è una soluzione di breve respiro. Da durare appena il passaggio di una nebbia.
C’è anche una donna. Un punto stabile: lo sguardo fermo e duro; come se una dolcezza infinita si fosse violentemente spenta in un battito. Al suo posto, una parodia d’affetto: un’indifferenza non sofferta, una compassione che non ammorbidisce. Il suo nome è Ruth ed un grande mistero psicologico pende dalla poesia delle sue labbra; dalla sua voce spaventosamente serena nella notte. Dapprima semplice referente dei pensieri della coscienza confusa di Pollock, il suo personaggio acquista sempre più lo spessore di un giudice ultraterreno. La sua dimensione è posta tra gli abissi psichici della morte e quella nebbia incognita che fa da panorama e di cui lei stessa, probabilmente, è parte. Viene così a crearsi un’atmosfera unica, che all’inferno dantesco conferisce un tocco americano e la modernità dei thriller d’autore. Merito in parte dell’apparato scenico. Il palco si trasforma in un’isola di terreno. La sua realtà spaziale tentenna tra introspezione e soprannaturale,  mantenendole in simbiosi con eleganza e poesia. La personalità di Pollock si fonde in un perfetto equilibrio con la propria storia, presa nell’istante ultimo della morte. Giuseppe Manfridi dà prova di un’arte di rara qualità. Da un lato il genio di chi sa cogliere il punto di vista inaspettato. Dall’altro il gusto della parola; la poesia costruita su Pollock, sulle sue idee. La sua interpretazione è di una complessità saporita. Una recitazione elegante e accurata. La voce si piega alle più rauche tonalità. La personalità è rabbiosa e dirompente. Ruth gli si aggira intorno, mai vicina; implacabile ma serena. Nelly Jensen la arricchisce di una sensualità quasi crudele. Quella di un’entità enigmatica, impietosa ma senza rancori. L’inesorabile posa della verità finale. Entrambi si alternano in un ritmo oscuro, dal gusto indefinito e risucchiante.
È l’esempio di un teatro a cui siamo sempre meno abituati. Quel fenomeno che cattura la mente e l’arricchisce nel corso di una catarsi; l’unico capace di parlare sempre alla psiche dell’uomo, scavalcando ogni altra barriera.
Decisamente da ricordare.
Gabriele Di Donfrancesco
Nato a Roma nel 1995 da famiglia italo-guatemalteca, è un cittadino di questo mondo che studia Lingue e Lettere Straniere alla Sapienza. Si è diplomato al liceo classico Aristofane ed ama la cosa pubblica. Vorrebbe aver letto tutto e aspira un giorno ad essere sintetico. Tra le sue passioni troviamo il riciclo, le belle persone, la buona musica, i viaggi low cost, il teatro d'avanguardia e la coerenza.

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