Leopardi? Ebbene sì, lo spettacolo teatrale di Alessandro D’Avenia, con la regia di Gabriele Vacis e le scenofonie di Gabriele Tarasco, ha come protagonista Giacomo Leopardi.
Che vi posso assicurare non è quello sfigato che ci vogliono far credere i libri di letteratura! D’Avenia non solo scrive di Leopardi, facendocelo sentire come un coetaneo, ma trasforma il libro in spettacolo, a prova che la letteratura è ancora terreno fertile. Ne ho avuto la prova mercoledì sera, quando arrivata al teatro Eliseo, a Roma, mi sono accorta che il pubblico ricopriva le varie età; dai più giovani ai più adulti. Il palcoscenico semplicemente stava lì, davanti ai nostri occhi, senza coperture. Con dei banchi di scuola già posizionati e dei ragazzi che parlavano tra loro, indisturbati, fino al suono di una campanella (che trauma!), conosciuto fin troppo bene da tutti noi.
Il teatro, da quel suono, è diventato aula senza confini, senza età e senza paure. Luogo in cui immergersi per uscirne rigenerati, un po’ come quando si torna a lezione dopo la ricreazione (ri-creati, ri-generati). Aula senza soffitto e con il cielo stellato. Aula di cui non aver paura, almeno una sera. Aula che si prende cura di chi c’è dentro, almeno per una sera.
Lo spettacolo che porta in scena D’Avenia non è un semplice monologo teatrale, ma è parola viva, capace di colpire nel profondo, perché è parola che si aggrappa ad una vita.
Ad un’esistenza che è stata catalogata, ma forse mai capita nella sua complessità. Quello di Alessandro è un appello forte, per noi del ventunesimo secolo, che ci invita ad ascoltare qualcuno che non sia vacuo. Ci invita a riscoprire la bellezza della poesia, dei versi e di tutto quello che contengono. Le paure e i desideri, gli stati d’animo, le gioie e le delusioni di chi li ha scritti. Leopardi si era raccontato tanti anni fa e grazie a D’Avenia l’ho capito solo mercoledì sera, seppur in ritardo. Bello vedere come in quella storia, di una persona nata centonovantotto anni prima di me, fossero percorribili le cosiddette “età della vita” che sono le stesse che percorriamo noi oggi. Con gli stessi timori. L’ ADOLESCENZA o l’arte di sperare, la MATURITA’ o l’arte di morire, la RIPARAZIONE o l’arte di essere fragili e il MORIRE o l’arte di rinascere. Tutte parole di Leopardi. Il pessimista.
Si è parlato di bellezza, di presenza e assenza, di benedizioni, di nomi e volti, di stelle e cieli stellati, dell’infinito, dei libri, dei poeti, di chiamate. Di solito, racconta D’Avenia, quando arriva una chiamata ci si sente affidare un pezzo di mondo da dare anche agli altri: ecco io mi sono sentita così. Ricca, e come mi piace dire in questi casi, piena: non vedevo l’ora di aprire il pc e provare a riodinare la mia ricchezza, senza sciuparla. E poi si è parlato di destini, che devono diventare destinazioni. Della fragilità, che se sfocia in canto, come è stato per Leopardi, allora diventa arte. L’arte di essere fragili.
Lo spettacolo è stato scandito dalla lettura dei versi di Leopardi, il vero centro della serata. Poesia, dal greco poieo, che significa fare, porre qualcosa nel mondo che prima non c’era. Creare, mettendoci tutta la propria vita e sofferenza. Si, sofferenza, perché senza soffrire non si crea un solo verso. Non solo poesie, ma sono stati letti anche pensieri, come ad esempio quelli contenuti nello “Zibaldone”. L’altra sera, per la prima volta e con un po’ di malinconia, ho ricordato una cosa felice del liceo. Quando la professoressa di italiano ci disse di comprare un quadernino, di chiamarlo Zibaldone e di scriverci almeno un pensiero al giorno. Non credo proprio che nessuno di noi sia mai arrivato a 4526 pagine, cioè quelle effettive dello Zibaldone leopardiano, ma quello era un inizio, un avvicinamento. Per me è stato un “rapimento”. Il racconto teatrale ha richiamato in me qualcosa, ha tolto veli per fare più luce. E la luce è entrata in chi si è trovato a bocca aperta, con le braccia morbide sulla poltrona e con gli occhi lucidi, di fronte a tanta bellezza che ci attraversava tutta insieme.
Il libro da cui è stato tratto questo spettacolo, che sarà ancora in scena, è dedicato “a tutti i ragazzi e le ragazze ai quali sono state spezzate le ali, prima di spiccare il volo”. Durante quei momenti di esercizio della meraviglia, io le ho ritrovate le ali, le ho indossate e ho volato. Per un po’. E le sensazioni sono state tante: quella di essere a scuola, quella di entrare per due ore nella vita di Leopardi, e, la più importante, quella di fare un check up della mia singola esistenza. In un teatro, insieme ad altre centinaia di esistenze, grazie a D’Avenia e a Giacomo Leopardi.
Serena Pastorelli