Estate, tempo di Taranta: la campagna pugliese è battuta dal solleone, la luce rimbalza sulle pareti bianche delle casupole- poco più che capanne- di Galatina, in provincia di Lecce, gli animi sono morsi da pentimenti e angosce. Ernesto De Martino, antropologo col pallino del Meridione, inizia da qui il suo studio su una delle tradizioni italiane che più ha scosso l’immaginario collettivo, il tarantismo. Donne e uomini che battono il piede al ritmo ossessivo della piccola Taranta, “la tarantella”, fino alla perdita di se stessi, sino alla guarigione. L’antropologo, quando partì da Roma verso Galatina nel 1959 con la sua équipe, si chiedeva quanto del fenomeno si dovesse a cause mediche, quanto invece si spiegasse in ambito nevrotico e simbolico. Una cosa è certa: quando il nostro giunse sul luogo, già il rito era un relitto del passato, in via di scomparsa. Fatale gli fu l’impatto col Cristianesimo che finì per assorbirlo in sé, cambiandone il sistema ed estinguendolo col tempo.
Questo è come doveva sembrare l’esorcismo dal veleno della Taranta, svolto attraverso la musica.
Tarantismo, un disturbo clinico?
La prima cosa che ci fu da fare , prima di proseguire con qualsiasi tipo di ricerca, fu assicurarsi che quei balli ossessivi, quelle crisi, quei sintomi non fossero dovuti al morso reale di un ragno. Molti dei tarantati riportavano in effetti un morso reale, ne riferivano le circostanze. L’Estate, ossia la stagione in cui si verificava la maggior incidenza dei casi, è in effetti la stagione in cui i ragni sono più attivi, veloci e velenosi. Ed in più è la stagione della raccolta del grano e dei frutti, predisponendo l’uomo al contatto con le bestie. Ora, in quelle zone, le crisi da latrodectismo, cioè da avvelenamento, sono rarissime. Lo stesso Di Martino osservò che, tra tutti i casi che considerò, solo uno era riconducibile, in parte, ad un morso reale. Erano troppe le cose che, di contro, spingevano ad una considerazione simbolica del tutto. Come spiegare ad esempio la frequenza più alta delle crisi nelle donne rispetto agli uomini, che l’età della prima crisi fosse più o meno la stessa per tutti, che la provenienza dei tarantati fosse dalle stesse famiglie da generazioni e dalla stessa classe sociale- cioè contadini senza istruzione-? C’erano luoghi che, misteriosamente, apparivano immuni al fenomeno. A Galatina non si era mai registrato nessun caso: la città, si diceva, fosse protetta da San Paolo. Inoltre, i primi morsi avvenivano sempre in Estate e tendevano a ripetersi in un orizzonte continuo di ri-morsi, tanto che i tarantati lo rimanevano spesso per una vita.
Era impossibile spiegare tutte queste coincidenze non ricorrendo al simbolo.
Tarantati, gente un po’ nevrotica
Si proseguì quindi alle spiegazione simbolica, partendo dalla protagonista indiscussa della danza: la taranta. Diciamolo una volta per tutte: la taranta non è la tarantola ma un monstrum mitico che si nutre di diversi spettri. Per tradizione, l’aspetto descritto è quello della tarantola classica. Il ragno bruttissimo per eccellenza, con le zampone pelose e le chele forti, la lycosa tarantula. Sì, peccato però che questo ragno, ad eccezione di danni locali, non provochi nulla. O almeno: non può provocare nessuna crisi come quelle descritte nelle danze delle tarantate. È l’altro fratellino della famiglia ad essere molto più nocivo, il latrodectus tredecimguttatus. Solo che, come Calimero, questo sia piccolo e nero e il suo aspetto non è quindi troppo minaccioso. La Taranta fonde assieme questi due ragni nei loro aspetti più temibili: dell’uno l’aspetto, dell’altro il veleno. In altri casi, col nome di Tarantola si intendono anche scorpioni e alcuni serpenti. Alla Tarantola che morde si dà un nome, come “pina” o “maria” e questa può mostrare diverse tendenze e gusti: alcune tarantole spingeranno a ballare su ritmi da ossessione, altre preferiranno litanie più lente, altre vorranno alcuni tipi di colori, altre odieranno gli stessi.
Il simbolo serve a curare. Ricordiamoci dove siamo: gente semplice che non conosce altro modo, per liberare le proprie angosce, se non quello di affidarsi alla musica, all’orizzonte ben determinato del ritmo. Davanti al pericolo dell’annullamento esistenziale, davanti alla possibilità del dolore, i contadini, terrorizzati, si affidano ad un simbolo: e danzano, danzano su una musica ben scandita che dà ordine alle loro paure scomposte. La metafora è quella delle braccia di una madre che cullano: battono il tempo, avanzando nello spazio e retrocedendo ciclicamente, sino al sonno.
Non a caso, a ben guardare, qualsiasi tarantato ha alle sue spalle una storia fatta di soprusi, rinunce, dolori familiari, censure sociali. Il tarantato è un nevrotico, e il nevrotico è chi abbia interiorizzato delle contraddizioni sociali, senza poterle più risolverle.
Serena Garofalo
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