“Ai miei tempi si stava meglio”: il passato è davvero migliore?

Questa è la frase che sempre più spesso si sente ripetere, non solo dai nostri nonni o da alcuni politici che fanno della grandezza passata un valore ma anche da alcuni giovani, ma hanno davvero ragione?

Tutti i giorni siamo continuamente bombardati da orribili notizie. Che sia al telegiornale o sul nostro feed social ci vengono riportati casi di razzismo giornaliero, crisi economica, malattie, carestia e guerra, ma se andiamo a vedere i dati e se li guardiamo da una prospettiva corretta questi ci raccontano un’altra storia. Infatti, se andiamo a cercare su “Our word in data”, sito che raccoglie dati dal tutto il mondo, notiamo molto chiaramente come la distribuzione globale del reddito sia nettamente migliorata in tutto il globo.

Se all’inizio del 1800 soltanto una piccola minoranza di persone era benestante, circa 80% della popolazione mondiale viveva in condizioni che oggi noi riteniamo di povertà estrema. Nei secoli successivi la situazione si è ulteriormente evoluta in “meglio” in Europa e nelle Americhe specialmente. Passati solo 40 anni alcune popolazioni di Asia e Africa hanno vissuto un aumento del reddito fino a quasi uguagliare i redditi americani ed europei, portando così la popolazione che viveva in estrema povertà ai minimi storici.

Se poi diamo un’occhiata all’indice di sviluppo umano, che misura le dimensioni di una vita lunga e sana, l’accesso all’istruzione e un tenore di vita dignitoso, notiamo come questo sia migliorato negli ultimi 60 anni in tutto il mondo.

Ma allora cosa spinge le persone a credere che in passato si vivesse meglio?

Una possibile spiegazione del perché ci viene fornita Amos Tversky e Daniel Kahneman (1973). Le persone tendone a stimare la probabilità di un evento, non sulla reale probabilità oggettiva, ma bensì sulla disponibilità di una informazione in memoria e dall’impatto emotivo che questa ha sul ricordo. Se infatti giornalmente siamo esposti maggiormente a brutte notizie, quando ci troviamo a ripensare al passato e lo compariamo con l’oggi, le prime cose che ci verranno in mente spontaneamente saranno con quelle brutte dell’oggi (che sono più recenti e accessibili in memoria), cosa che ci spingerà a credere di stare peggio rispetto a prima.

Ma il nostro cervello ha ancora un’altra carta da giocare per farci ammirare ancora di più il passato, il bias di conferma. Questo processo mentale, descritto sin dall’antichità ma sistematicamente studiato da Peter Cathcart Wason (1968), è caratterizzato dal ricercare e selezionare prevalentemente le informazioni che tendono a confermare le nostre ipotesi e a ignorare attivamente, quelle alternative.

Perciò se crediamo che nel passato si vivesse meglio, tenderemo a cercare con più insistenza informazioni che confermano la nostra visione del mondo, creando così, un circolo che si autoalimenta.

Ci dovremmo accontentare?

Questo vuol dire che non dovremmo lamentarci di come vanno le cose? Ovviamente no, dobbiamo infatti aspirare al migliore mondo possibile, ma non dobbiamo ingannarci che il passato sia necessariamente meglio del presente. Ancora oggi nel mondo l’8,9% della popolazione mondiale soffre di denutrizione e nonostante la diminuzione osservata negli ultimi anni ancora non possiamo accettare numeri così alti. Guardare al passato con interesse e ammirazione è certamente utile, anche solo per capire come ci siamo emancipati da alcune miserie umane, ma non dobbiamo rimanere incantati e inebetiti davanti ad un passato che abbiamo arredato secondo i nostri gusti e che non corrisponde alla realtà.

Articolo scritto da: Mirko Duradoni e Lapo Bartarelli

Mirko Duradoni
Docente di "Psicologia dei Gruppi e delle Relazioni Sociali" e membro del Virtual Human Dynamics Laboratory (VirtHuLab), presso l'Università degli Studi di Firenze.

COMMENTA QUESTA DOSE DI CULTURA

Lascia un commento!
Inserisci il tuo nome qui