È arrivato il momento di fare una riflessione su ciò che per due anni ha caratterizzato le nostre vite: il distanziamento sociale. L’ottemperanza a tale distanziamento ha indubbiamente previsto un certo sforzo psicologico, emotivo e fisico dato che si contrapponeva alla nostra natura di “animale sociale” (Aristotele).
Le origini del (ani)male sociale
Un’ampia distanza sociale, come quella richiesta durante la pandemia da Covid-19, è una grande sfida e uno stress per gli esseri umani, i quali si sono evoluti in un contesto di vita gruppale e di comunità proprio perché nel contesto sociale potevano trovare soddisfazione per i propri bisogni e necessità. Il bisogno di relazionalità e di appartenenza (i.e., need to belong) non a caso è stato individuato da Maslow come uno dei bisogni fondamentali della sua piramide. La frustrazione di questo bisogno incrementa i livelli di stress, ansia e depressione (solo per dirne alcuni) ed è chiaro che quindi aumentare la distanza sociale comporta un trade-off innegabile. Tuttavia, la capacità di regolare la distanza dagli altri a fronte di situazioni particolari e contingenti non una mera e semplice prerogativa adattiva umana, bensì una pratica che adottano anche molti animali.
Il “contact tracing” animale
Avere avuto la possibilità di avere sensi in grado di riconoscere un eventuale portatore di una patologia contagiosa sarebbe uno scenario alquanto idilliaco in un periodo emergenziale quale quello della pandemia, ma ahinoi, ci è toccato tentare di sopperire con la tecnologia senza grande successo (i.e., tracciamento dei contatti; Guazzini et al., 2021). Tale possibilità è però biologicamente, evolutivamente e chimicamente prevista in alcune specie animali, le quali poi sono in grado di usare tale informazione per modificare le dinamiche del gruppo e abbassare quindi il rischio di contagio (Townsend et al., 2020). Specie animali come le comuni formiche nere (Lasius Niger) presentano cambiamenti comportamentali nella propria rete sociale in rapporto alla presenza o assenza di un potenziale patogeno all’interno del proprio gruppo. A fronte di formiche contagiate infatti la comunità si riorganizza per evitare la trasmissione globale, aumentando la distanza di rete tra la regina e le operaie, (Stroeymeyt et al., 2018). Alcuni animali come le aragoste sembrano essere in grado di predire l’insorgenza della malattia in altri co-specifici prima ancora che siano infettivi e adottano nei loro confronti un sano evitamento (Behringer et al., 2006; Anderson & Behringer, 2013). Nel caso invece dei primati, come i Gorilla del Congo, i maschi infetti da malattie cutanee vengono isolati dalle femmine, le quali sono in grado attraverso indizi fisici, visivi e comportamentali di cogliere eventuali segnali di infezione (Baudouin et al.,2019).
In conclusione, il distanziamento sociale che in molti giustamente hanno vissuto come qualcosa di innaturale, come un qualcosa che frustra la natura sociale stessa dell’essere umano, in realtà è un’esperienza comune nel mondo naturale soprattutto negli animali sociali, ovviamente a fronte di un “pericolo” contagioso. A differenza di quest’ultimi però a noi mancano buone “antenne”.
Articolo scritto da: Mirko Duradoni e Veronica Spadoni