Alla scoperta di Migrations, l’album di esordio dei Mojis. Band dalle mille sfumature e originaria di Sorrento (NA), capace di divincolarsi fra più suoni.
Se ora vi racconto di Migrations, l’album di debutto dei Mojis, in uscita il 24 Aprile è grazie alla fiducia riposta nello scoprire qualcosa di nuovo. Aprirsi e non chiudersi. Dare fiducia e non sfiducia. Subito sono stata incuriosita dal nome di questa band sorrentina che tra l’altro, come mi è stato spiegato, contiene una parola che si avvicina al significato di magia: Mojis che suona simile a magic, musica come entità magica, che semplicemente nasce, in questo caso grazie e attraverso la voce di Marco Spiezia, la batteria di Ivan Esposito, la chitarra di Francesco Romano e il basso di Stefano Romano.
La sensazione che ha accompagnato il mio ascolto è paragonabile a quella di un viaggio, bisogno e necessità di nuove strade e orizzonti più lontani da quelli di casa. Probabilmente lo specchio degli ascolti più vari che hanno caratterizzato e caratterizzano tutt’ora la vita artistica dei quattro componenti. Questo album spazia, fa largo, riesce a toccare più suoni e sfumature, ricerca una nota piuttosto che un’altra, studia nel dettaglio cosa aggiungere e cosa no. E’ pieno orizzontalmente direi. E non per questo è dispersivo o sconclusionato.
Il bisogno di passare dal rock al folk, dal folk al blues e così via ha un qualcosa che mi ha permesso di stare incollata e sentirlo tutto d’un fiato. E’ proprio grazie a questo che il mio viaggio è iniziato, che mi ha fatto scoprire il deserto e subito dopo la montagna, e poi il mare. Passaggi la cui immagine emblematica è quella della copertina, che comprende tutti i colori dell’arcobaleno ma che è anche metafora. Come ha detto Marco (il cantante): “Per quanto riguarda i maiali rappresentano il mercato, le potenze mondiali; gli orsacchiotti sono le persone che potrebbero avere il potere sul mondo per cambiarlo, ma nell’innocenza non si rendono conto delle proprie potenzialità, e quindi li cavalcano inconsciamente” (chiaro riferimento a “La fattoria degli animali”).
Ce ne è per tutti: nove tracce (il numero giusto) che ti porgono la mano fiduciose che qualcuno la afferri. Ad esempio “Broken Chord” la traccia numero uno sembra dare il benvenuto, leggera ma efficace (giuro che nella mia testa adesso suonano incessanti le prime note) o “New Found Land” la canzone che più di tutte fa addentrare (o migrare, vedete voi!) in una nuova terra, con nuove scarpe.
Ci sono sparse alcune domande come “and now?” “what have you done? Why have you waited so long?” Fare delle domande e tenere aperti interrogativi sono modi per crescere, per cercare senza perdersi, per capire. “Small is beautiful”, settima traccia, è un chiaro riferimento all’omonimo saggio di economia di E.F. Schumacher, a cui il disco è dedicato. Quest’ultimo afferma «Al giorno d’oggi soffriamo di un’idolatria quasi universale per il gigantismo. Perciò è necessario insistere sulle virtù della piccola dimensione, almeno dovunque essa sia applicabile.» Un ascolto attento farà davvero percepire la cura del dettaglio, e nonostante ci sia una normale influenza di altri giganti della musica, la ricerca di suoni risulta meno scontata possibile.
Ho percepito “l’essere band” come elemento di forza già dalla prima traccia, quando come per magia ho sentito anche il basso, che non è così scontato come riconoscere la batteria o la chitarra. Quindi vi assicuro che i Mojis hanno quella cosa fondamentale che si chiama creatività. Quell’estro che diciamo non si può imparare completamente, qualcosa che ha a che fare con, guarda caso, il magico. Ma ora basta parlarne, la musica è nata per essere ascoltata… Buon ascolto!
Serena Pastorelli