Matteo Méliès e il suo cantautorato al sapor di casa

Matteo Mèliès

Immaginatevi una mattina a passeggiare per le vie della vostra città. Ora pensate a un modo per raccontare le vostre sensazioni e i vostri ricordi.

Come vi approccereste alla stesura di un lavoro simile? Ebbene, se vi serve qualche consiglio potrete di certo trovare utili indicazioni nelle parole di Matteo Bolpagni, in arte Matteo Méliès.

A più di tre anni di distanza dal suo primo EP, il cantautore bresciano torna con un nuovo album.

Giorni in collina è composto da undici tracce, una più intima dell’altra. È proprio l’artista infatti ad essere centro del progetto: la sua vita e i suoi ricordi sono il percorso tracciato per voi che avrete il privilegio di regalarvi un viaggio sensoriale.

I luoghi, i sorrisi, i profumi e i volti visti, vissuti e intrisi nelle sue memorie. Accuratamente selezionati e raccontati attraverso il suo inconfondibile timbro vocale. Un sound ricercato e perfettamente calzante al tema trattato che trova in brani come Via Longhetta e Il paese un risultato eccezionale in termini di immedesimazione dell’ascolto.

Vi sembrerà di essere con Matteo Méliès in sella alla sua bicicletta. Avrete voglia di assaggiare il cibo di quelle terre e perfino di scambiare due chiacchiere con qualche passante interessante.

Matteo Méliès
Giorni in collina

Matteo Méliès, mezzo nome d’arte di Matteo Bolpagni. È uscito da poco il tuo album “Giorni in collina”. Ho letto che hai avuto bisogno di un po’ di tempo per realizzarlo. Ti va di raccontarci un po’ i retroscena di questa tua creazione? Magari fino al giorno in cui hai detto: “Ok, è pronto”.

Mi sono sempre piaciuti i dischi con un filo logico che li percorre. Dopo il primo EP, concepito come una tavolozza di idee, avevo voglia di realizzare qualcosa di più strutturato. La cosa più semplice era parlare di me, quindi ho cercato di cristallizzare alcuni momenti trascorsi nel luogo dove sono cresciuto. Nella teoria sembrava una cosa semplice, ma poi sono emersi pensieri e ricordi a cui sono affezionato che meritavano testi e musiche che calzassero perfettamente sui concetti. Per arrivare a ciò mi sono serviti anni: finito un pezzo passavo ad un altro, lasciando che quello appena sospeso potesse decantare e mostrare i difetti, per poi lasciarsi perfezionare tempo dopo. Ad un certo punto, incoraggiato da chi mi vuole bene, ho finalmente deciso che era finito!

Il disco si apre con “Casa”, brano ricco d’immagini e che tocca una tematica ben precisa: siamo ciò che vogliamo apparire, in diversi momenti della nostra vita. La casa come l’auto oppure i vestiti. Rimanendo sul tema della canzone, è davvero così importante arredare la nostra anima “prestando orecchio all’esigente estetica”?

Ognuno di noi desidera il controllo sulle cose che ritiene importanti, nel limite delle proprie possibilità. Anche se non possediamo l’immobile in cui viviamo, per esempio, possiamo personalizzare alcuni particolari che fanno la differenza: i punti luce, i quadri, i mobili… La nostra immaginazione viene così messa in moto, stimolata dall’idea che abbiamo del luogo in cui vorremmo vivere. Sfogliamo i cataloghi alla ricerca del tavolino perfetto e quando l’abbiamo trovato ci buttiamo nel traffico cittadino. Altre volte invece sono le “non scelte” a rivelare chi siamo; quando capita di essere invitati in una casa con le luci fredde e la cena servita su un tavolo bianco, per esempio, capisci che perlomeno all’ospite non danno problemi gli ambienti un po’ asettici stile “2001: Odissea nello spazio”, dato che ci passa buona parte del suo tempo.

Il secondo brano s’intitola “Il paese”. Scene di ordinaria quotidianità si fondono con i paesaggi di montagna della tua provincia. I cori danno l’idea di essere nell’occhio della pace della valle di cui parli. Dicci che paese è che ci veniamo noi tutti a vivere.

Il paese in questione è Botticino, ma attenzione: in alcuni momenti il disco tende a distorcere la realtà, fondendola con i ricordi ingenui dell’infanzia in cui gli adulti senza macchia non erano che personaggi quasi disneyani. La nostalgia di quelle illusioni porta ad alcuni momenti di beatitudine in parte irreale.

In “Via longhetta” ti accompagnamo nei giochi di colori regalati dall’autunno. Un salto nella tua giovinezza, ci sembra di essere seduti nella bicicletta su cui viaggi e vorremmo tanto allungarci per assaggiare uno di quei melograni. Cosa significa per Matteo Méliès questo brano?

Prima di decidere di parlare di me e del mio paese, avevo pensato a un album sulle strade a cui sono affezionato. Via Longhetta doveva essere la strada scomparsa, quella strozzata dal teatro comunale costruito nel suo mezzo. L’ultima mulattiera nel cuore del paese. Alla fine, man mano che la scrivevo, il lato polemico è andato scemando, lasciando posto a tutti i bei ricordi che ho di quella via, con il suo sole stupendo che mi colpiva nel pieno della pubertà.

Ascoltando il tuo lavoro si ha l’impressione di aver ricevuto un invito nella tua vita e nei luoghi dove l’hai fino ad oggi vissuta. Ci si sente ospiti graditi, si scoprono sapori e odori e si partecipa “attivamente” alla vita di tutti i giorni. Era uno degli obiettivi del tuo lavoro?

Sicuramente era uno degli obiettivi. Volevo inoltre che ognuno potesse immedesimarsi nelle canzoni, o almeno in alcune di esse dato che le dinamiche paesane sono abbastanza universali: gli anziani al bar che ti chiedono chi è tuo nonno, le orchestrine di musica tradizionale, i ricordi della scuola… Penso che siano realtà estendibili a buona parte dell’Italia e forse anche ad alcuni quartieri di grandi città come Roma, Milano o Napoli.

Matteo Bolpagni

Nebula è un brano strumentale. Ambient come dicono quelli bravi. Posto a metà disco fa un po’ da spartiacque e ci porta… dove esattamente?

Nella zona più tenebrosa del disco. Serviva un passaggio che soffiasse via le nuvole del temporale protagonista in “Bosco”, per spalancare il cielo e poter parlare di stelle.

Per tutto il disco si ha l’impressione di vivere la fase diurna dei luoghi in cui ci porti. Nebula sembra aprire una mini fase notturna autoconclusiva. A raccontarcela bene poi è Stelle divampano luce. C’è un’atmosfera aulica e un continuo avvicendamento cielo/terra.

È la canzone con la genesi più tormentata di tutte! Ne esiste un’altra versione molto vecchia completamente abbandonata. Quella sul disco l’ho incisa l’Estate scorsa: avevo finalmente capito la dimensione che volevo darle ed è stato allora che ho deciso di contrapporre la maestosità del cielo alla natura “rasoterra” dell’osservatore, che mentre si meraviglia della moltitudine delle stelle tocca con tutto il suo corpo l’erba del prato su cui è sdraiato.

Non può mancare un matrimonio a chiusura del disco. In pieno stile italico (anche al nord durano tanto come da noi? mangiate fino al decesso degli invitati?) ci racconti in maniera divertentissima tutto ciò che accade attorno alla sposa sorridente all’altare. Ora sono curioso: chi è Daniela?

Daniela è una donna attorno ai trentanni col sogno del matrimonio, uno stuolo di amiche single/eterne fidanzate, uno zio un po’ viscido la cui ambizione è quella di sparare le ultime cartucce ed una zia troppo sveglia per suo marito. Un buon soggetto per un ballo liscio che strizza l’occhio ai balli di gruppo. I matrimoni sono un po’ come il discorso della casa che si faceva prima… Ne ho visti di ogni tipo e quasi sempre rispecchiano l’indole degli sposi. Anche al Nord capita non di rado che qualcuno torni a casa “coi piedi davanti”!

Il ritornello di questo stesso brano ha un qualcosa di sinistro al suo interno: “Zia non si fa fregare, ha gli occhi di chi sa ammazzare” Cosa intendi?

Beh lo zio è talmente spudorato nel fissare le ragazze, che la zia ci mette due secondi ad abbassargli le orecchie con una delle sue occhiatacce assassine. È un classico teatrino, nulla di grave!

Cosa si prova ad ascoltare il proprio disco una volta finito? Sei soddisfatto? Sei di quegli artisti che continuerebbero a cambiare i loro brani fino all’infinito se potessero?

Appartengo alla seconda categoria, purtroppo. Questa volta, però, l’ho curato talmente a lungo che per fare meglio di così dovrei maturare ancora un po’; passerebbero altri anni. Da quando è stato mandato in stampa l’ho ascoltato solo due o tre volte, il mese scorso. Del resto sono tre anni che mi fa da colonna sonora! È una fase terminata ed ora ho bisogno di altro.

Un’ultima domanda prima di salutarci: dovremo aspettare altri tre anni prima di ascoltare nuovamente Matteo Méliès?

Eh non saprei… Ho molte idee in testa ed un sacco di musiche più che abbozzate. Devo trovare un nuovo tema da affrontare che mi possa ispirare per un intero album, ma prima devo fare ordine, capire quello che voglio dire, decidere il “filo rosso”. Al momento di fretta non ne ho dato che non ho un’etichetta che mi mette sotto pressione. Chiaro che se vendessi qualche disco magari diventerei più veloce…

Un lavoro che è un vero e proprio viaggio alla scoperta dell’artista.

Una biografia musicata che donerà ai vostri cinque sensi il piacere di essere attivati con il solo click del pulsante play.

 

 

Emiliano Gambelli

Cantautore e scrittore per passione, "non" poeta per mia stessa ammissione, sognatore e poi sì, ho anche un lavoro vero.

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