Totò, l’Uomo e la Maschera. Un prezioso ricordo del grande attore napoletano

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Totò, l’Uomo e la Maschera è il più intimo, bello e prezioso libro per raccontare non solo il più grande comico di sempre, ma principalmente il suo mondo.

Il 15 aprile 1967, alle tre di una notte che non conobbe l’alba, nella sua casa romana nell’elegante quartiere dei Parioli, moriva per un ultimo e ferale attacco di cuore Antonio De Curtis. O semplicemente Totò. A distanza di cinquant’anni esatti la casa editrice minimum fax riedita meritoriamente il primo libro scritto sul grande comico napoletano, Totò, l’Uomo e la Maschera, in passato già pubblicato da Feltrinelli, Pironti, L’Ancora del Mediterraneo e più di recente da Mondadori.

Totò scolpito dal maestro adriano De Angelis

 

Nato dal felice incontro tra Franca Faldini, ultima compagna di Totò, e il critico cinematografico Goffredo Fofi, il libro uscì nel 1977. Erano gli anni quando gli italiani stavano riscoprendo il Principe della risata, a dispetto dell’albagia di certi solerti critici che avevano confinato Totò nell’alveo di un cinema di serie b. Ma si sbagliavano e molto perché Toto, per usare le parole di Goffredo Fofi, fu insieme a «Pirandello, a Eduardo e a Carmelo Bene, il più grande artista nella storia dello spettacolo del nostro Novecento.»

Su Totò in questi cinquant’anni di nostalgica assenza, sono stati scritti decine di libri.

Alcuni pregevoli, altri meno, ma Totò, L’Uomo e la Maschera, non solo perché primogenito di una fortunata letteratura, è di gran lunga il più bello, il più intimo, forse il più vero.

Già dal pirandelliano titolo, appare evidente la volontà dei coautori di sottolineare la dicotomia fra l’uomo, il principe De Curtis, e la maschera, il guitto, il comico, Totò, ovviamente. Una contrapposizione che non è solo un’indovinata intuizione editoriale, ma riproduce fedelmente quello che l’artista partenopeo pensava realmente, tanto da sostenere che nella sua casa vivesse soltanto Antonio De Curtis:

«e che c’entra Totò tra queste mura? Mica siamo in un camerino, no? Totò è il frutto del mio lavoro specializzato(…). Qui abito come Antonio De Curtis, privato cittadino, che poi esce e va a faticare, e al posto di una tuta, un camice, o un doppiopetto grigio, indossa la sguaiataggine di Totò.»

Esisteva, dunque, l’uomo Antonio De Curtis e l’attore Totò, due entità che non convivevano, al massimo si sfioravano.

E allora grazie all’elegante e fluida scrittura di Franca Faldini, una donna per natura incapace di mentire, ripercorriamo la vita dell’uomo. A partire dall’infanzia difficile in un rione povero di Napoli, fra vicoli dove si imparava presto la vita, cresciuto più dalla nonna materna, «che non sapeva parlare neppure l’italiano» piuttosto che dalla madre, Anna Clemente che si augurava per il figlio un avvenire da prete o, altrimenti, da ufficiale. Due possibilità che, per quanto antitetiche, avrebbero rappresentato «la dignitosa soluzione di tutti i problemi.»

Un racconto che si dipana, come un infinito gomitolo, scivolando attraverso i vari momenti fondamentali della vita di Totò. Come, quando un pugno in faccia, sferrato da un facinoroso compagno di scuola del collegio Cimino, deviandogli il setto nasale e atrofizzandogli in parte i muscoli della mandibola, gli cambiò la vita. Perché il celeberrimo volto di Totò, così irregolare, maschera irripetibile e riconoscibilissima, nacque proprio a seguito di quel pugno. E poi primordi di una carriera difficilissima che portava uno sconosciuto attore, con il vezzo di imitare Gustavo De Marco, a esibirsi su scalcinati palcoscenici davanti a un pubblico «accanito mangiatore di fusaglie» e dispensatore di feroci sfottò ma che a un certo punto, solo e soltanto per la ferma e tenace convinzione, lo portò a svoltare, a decollare: «Questa è l’occasione mia, adesso o mai più. In bocca al lupo, e crepi questo lupo, Totò!»

E quell’augurio, quell’auto incoraggiamento, prima di uscire in scena sul palco dell’Ambra Jovinelli, dopo anni di oscure recite in tristi teatri, portò bene. Antonio Clemente, unico figlio di una ragazza madre, divenne finalmente quello che aveva sempre desiderato: un attore.

Ma la parte più bella del racconto che la Faldini fa di Totò in questo libro, è quella in cui emerge il lato meno conosciuto dell’attore napoletano, quello più intimo e riservato, il profilo di un uomo complesso, amante delle donne come pochi, maniacale fino allo sfinimento, generoso oltre modo, rispettosissimo del lavoro, che da buon attore viveva prevalentemente di notte (difficilmente si alzava prima di mezzogiorno, salvo, poi, trovare dalle due in poi una vitalità inaspettata, producendo «quanto e più di un attore che si trova sul set alle sette del mattino»), silenzioso, modesto, ironico, graffiante, terribile, abitudinario, geniale e «fondamentalmente timido fuorché sulle tavole di un palcoscenico.»

Un uomo schivo, quasi tetragono, attraversato da un sottile e persistente pessimismo.

Profondamente diverso dalla sua maschera, accanto al quale la Faldini visse quindici anni come compagna. Una vita non facile, certo, la loro.

Furono molte le velate ma incisive critiche che la giovane Franca ricevette quando fu nota la relazione con Totò. Uno sciupafemmine, un uomo molto più grande di lei, con storie alle spalle non sempre semplici, a partire dal suicidio di Liliana Castagnola, sua prima compagna. Ma Franca, pur occhieggiata da un’italietta bigotta e pettegola, amò pienamente quell’uomo. Difese infatti quella relazione così criticata con tutta se stessa, non sentendosi mai una Maddalena, una peccatrice, tantomeno una pentita; ma solo la compagna di un uomo non facile ma con il quale, nonostante tutto, aveva scelto di vivere.

Fu una storia difficile con momenti drammatici come quando morì, solo dopo un giorno di vita, il tanto desiderato Massenzio. E fu difficile fino alla fine. Ad esempio,  quando Franca, dopo tre lustri di vita insieme a Totò, fu costretta da uno zelante sacerdote, pochi minuti dopo la morte dell’amato compagno, ad uscire dalla sua casa e rimanere sul pianerottolo in attesa che fosse benedetto il corpo. Un estremo atto religioso a cui lei, vedova biblica, non avrebbe potuto partecipare per via della sua inaccettabile condizione di more uxorio.

Al racconto della maschera, ci pensa invece la splendida penna di Goffredo Fofi, che di cinema e di Totò sa molto.

Un racconto che prende inizio da quella casuale ripresa di Totò a colori a Milano nella primavera del 1971, quando l’Italia riscoprì Totò. Ripercorre la fortunata carriera teatrale, il vero amore di Totò; e quella ancor più celebre cinematografica. I suoi successi straordinari ma anche le scelte non sempre indovinate, dovute sia alla sua innata pigrizia ma anche a quella atavica fame di lavoro che lo portava ad accettare comunque, anche film non proprio belli.

Dietro tutto, però, anche quelle pellicole oggettivamente mediocri, c’era sempre la sua assoluta genialità, la capacità unica di eternare un film modesto con una battuta che sarebbe rimasta per sempre.

«Dietro Totò si ritrovava, in sintesi, la tradizione della maschera, la spinta vitale e anarcoide del sottoproletariato» e il desiderio primario di regalare al suo amatissimo pubblico, per cui Totò ebbe sempre un rispetto unico, la preziosa allegria.

Un libro, impreziosito anche dalla raccolta di alcuni fra i più celebri e divertenti sketch.

Destinato ai tanti innamorati di Totò, ma anche a coloro che lo conoscono appena ma che comunque, senza volerlo, recitano una delle sue innumerevoli e impareggiabili battute. Un uomo, prima ancora che una maschera, che era perfettamente consapevole di quanto la miseria fosse il copione dell’autentica comicità. Come lui stesso amava ripetere:

«non si può far ridere, se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l’amore senza speranza, la disperazione della solitudine di certe squallide camerette ammobiliate, alla fine di una recita in un teatrucolo di provincia; e la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffellatte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico senza educazione. Insomma non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita.»   

Maurizio Carvigno

Nato l'8 aprile del 1974 a Roma, ha conseguito la maturità classica nel 1992 e la laurea in Lettere Moderne nel 1998 presso l'Università "La Sapienza" di Roma con 110 e lode. Ha collaborato con alcuni giornali locali e siti. Collabora con il sito www.passaggilenti.com

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