Un romanzo fatto di parole sussurrate, ricordi dimenticati, abbracci negati, speranze ritrovate, di piccoli e grandi errrori, perché tutti sbagliamo.
[dt_quote type=”blockquote” font_size=”big” animation=”none” background=”plain”]“E la storia di una madre che ama sua figlia in modo imperfetto. Perché amiamo tutti in modo imperfetto.”[/dt_quote]
Lucy Burton, sposata con due figli, scrittrice con una vita normale, viene ricoverata presso un ospedale di New York per una banale operazione di appendicite. Quella che, però, dovrebbe essere una tranquilla degenza post operatoria si trasforma in una prolungata permanenza in una solitaria stanza del nosocomio, nell’incertezza dell’eziologia di quella sua strana malattia che la costringe a letto, lontana dalla sua vita, dalle sue amate figlie, da tutto ciò che desidera fare.
Poi un giorno, la monotonia di giornate sempre uguali, costellate di azioni ripetute e noiose, come guardare dalle finestre il lucente profilo del grattacielo della Chrysler o cercare un particolare nuovo nei volti fugacemente familiari di infermieri e medici, viene improvvisamente rotta dall’arrivo della madre di Lucy che in un contesto abituale sarebbe una visita normale, scontata, ma che nella vita di Lucy non lo è, perché lei la madre non la vede da anni.
Per questo motivo quell’esile figura che piomba silenziosa nella penombra della sua stanza sulle prime la turba.
E ora cosa le dirò pensa Lucy, mentre la scruta facendo finta di dormire per guadagnare tempo prezioso per capire il da farsi. Ma poi quell’innaturale presenza diviene assolutamente familiare, come se da quella stanza, e principalmente dalla sua vita, non fosse mai davvero uscita.
Due donne, una madre e una figlia, tornano in quell’asettica realtà ospedaliera a riconoscersi, a recuperare gesti familiari, racconti dimenticati, sensazioni che avevano smarrito, relegandoli in luoghi lontani e inavvicinabili.
Mi chiamo Lucy Burton di Elizabeth Strout, edito in Italia da Einaudi e tradotto da Susanna Basso, è un racconto che si snocciola leggero, che si dipana lentamente, un rocchetto di filo sottile che rotola lentamente, fermandosi solo quando sfiora l’ostacolo di dialoghi lievi, quasi muti, parole tenui che scivolano sulla superficie liscia e placida di un lago di imbarazzo, alimentato per anni da immissari di silenzio e fatale incomprensione.
Le parole appena accennate nella penombra di quella stanza d’ospedale lasciano, però, spazio ai racconti del passato, che affiorano stimolati da innocue punture di spilli, ridestando sensi da troppo tempo addormentati. Riemerge, allora, la difficile infanzia di Lucy, ritornano fragorose le sue paure, le cose non dette, quelle non viste. Un flusso di coscienza che si trasforma rapidamente in un torrente che si ingrossa man mano che scorre verso un estuario che ora Lucy cerca, implora, finalmente desidera.
Un piccolo libro che declina l’imprescindibile necessità dei rapporti familiari, anche quando sembrano trame sfilacciate di un vestito che non si indossa più da anni, che dà voce a una figlia e orecchie ad una madre, e allora anche una malattia dalla causa incomprensibile diviene l’occasione per ritrovarsi, per riordinare i pensieri, per guardarsi, per tornare a conoscersi.
Una piccola storia d’amore, di amori, di stupenda, umana imperfezione.
Maurizio Carvigno