La diversità, specie quella dei cosiddetti disabili, spesso ci spaventa e, invece, dovrebbe rassicurarci, perché alla fine dei giochi potremmo semplicemente riconoscerci in colui che giudichiamo diverso.
Se io, confrontandomi con un handicappato, scoprissi che la diversità non è tale da annullare la possibile identificazione, potrei avere timore di riconoscermi in lui.
«Uscimmo e lo vedemmo che si spogliava e, nudo come un verme, si arrampicava su un albero. Saltò da un albero all’altro come una scimmia o come un acrobata. Itard gli diceva di scendere, ma fu più convincente l’offerta di mele di un giardiniere. Così, sceso il sauvage dagli alberi, Itard se lo prese accanto e si avviò verso casa».
Così ha inizio l’esperimento sul ragazzo selvaggio che il celebre dottor Jean Marc Gaspard Itard, medico molto apprezzato nella Francia di inizio Ottocento e convinto sostenitore di idee rivoluzionarie circa l’educazione giovanile, spera di portare a termine occupandosi del suo sauvage.
Il selvaggio, in realtà, è un ragazzo abbandonato in tenera età che un gruppo di cacciatori aveva ritrovato in una foresta e che inizialmente nella civile Parigi era stato esposto per la pruriginosa curiosità della gente. Itard è convinto di poterlo educare. È sicuro, al contrario degli esimi colleghi della Société des Observateurs de l’Homme, che Victor, questo il nome che il medico sceglie per il selvaggio, possa imparare a parlare, diventando un uomo diventare un uomo normale, in tutto e per tutto.
Da questo celebre caso che divise e appassionò la Francia, prende spunto il famoso pedagogista Andrea Canevaro per il suo ultimo saggio dal titolo Il ragazzo selvaggio. Handicap, identità, educazione.
Temi non nuovi e già più volte trattati, in passato, dallo studioso, professore emerito presso l’Università di Bologna, da molti ritenuto il padre in Italia della cosiddetta pedagogia speciale e da sempre impegnato sul tema dell’inclusione sociale, con particolare attenzione ai temi legati alla disabilità.
Edito da EDB (EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA) Il ragazzo selvaggio è una riflessione a 360° sull’universo dell’handicap, sul ruolo dei medici, degli educatori, delle strutture destinate ai disabili, dei genitori e dei parenti e, naturalmente, di loro, quelli che spesso e volentieri definiamo troppo frettolosamente, e non senza una vena di ipocrisia, handicappati.
Canevaro, in questo saggio di poco meno di 150 pagine, affronta il rapporto esistente fra disabilità, identità ed educazione. Tre ambiti sapientemente sviscerati dal pedagogista che ha come stella polare, in tutto il libro, il tema dell’identità dell’handicappato che, come lo stesso Canevaro sostiene, «esige certamente la possibilità di essere completamente se stesso» opportunità che spesso non viene concessa a quelli che definiamo diversi e questo per supponenza, paura, ignoranza ma anche eccessive certezze.
D’altra parte Marcel Proust, che Canevaro cita nel suo bel saggio, vedeva «nelle identità identificazioni transitorie che di fatto sono il riflesso di convenzioni sociali, immaginazioni personali, pregiudizi razziali, serie, gruppi e nazioni, al cui fondo sta una bêtise, un divenire-animale, tanto più vero quanto più involontario, irriflesso, organico e non psicologico o intellettuale».
Un libro utile per tutti, specie per coloro che non hanno mai avuto un reale contatto con l’universo della disabilità.
Menzione particolare per il capitolo che lo studioso genovese dedica a come un handicappato diventi adulto, quando, cioè, esce dallo stadio giovanile, trovandosi al cospetto del mondo, del futuro. Un passaggio che, spesso, atterrisce i familiari del disabile e comunque tutti coloro che gli gravitano intorno.
Fino a quando, infatti, il disabile è protetto dalla famiglia, la diversità mette meno paura ma quando questi preme per varcare la soglia, per entrare in tutto e per tutto in quello che Canevaro definisce lo “stadio definitivo” allora la disabilità inizia a far paura. Entrare nel mondo adulto significa accostarsi al temuto tema della sessualità, della riproduzione che spaventa spesso più noi “sani.”
«La «capacità di riprodurre» è un fantasma che fa paura ai non handicappati, e li induce a negare a volte i più piccoli indizi di una sessualità che, non riuscendo ad affermarsi, non può neanche proporsi di maturare e divenire adulta».
Attraverso la lettura del Ragazzo selvaggio molti tabù cadono, come foglie spazzate via da una lieve brezza, ma anche molte facili banalità vengono meno e che quel mondo che ci spaventa, perché di fatto lo conosciamo poco, ci può apparire meno distante, perché «la diversità» come ha ricordato il pedagogista francese Henry Wallon «non fa che riflettere, nei suoi vari aspetti, l’identità fondamentale.»
Maurizio Carvigno
Non è un commento, ma una storia vera. Io sono Monica Bruni e scrivo su filastrocche.it. Credo che il ragazzo selvaggio sia un libro molto interessante. La disabilità non fa paura. A me no. Capisco che ci sono situazioni limite, però non c’è mai limite alla creatività intesa come esigenza di vita, per tutti noi che siamo buoni più del pane.
Io non faccio i conti con nessuno, manco Umberto Incasa, perchè gli ho sempre voluto bene e lui continua a insultarmi, forse per scherzo.
Non voglio una denuncia, ma solo dire che la mia canzone è questa: Controlla la tua vita e controllerai la storia. Controlla la storia e controllerai i bambini.
Grazie Monica per il tuo commento. Spero che siano in tanti a pensare che la disabilità non debba far paura. Grazie ancora per averci letto.
Maurizio Carvigno