Un film in forma di libro. L’omaggio di Francesco Rosi a Che Guevara, un viaggio a 360° nell’America latina degli anni Sessanta.
“Nell’ottobre del 1967 mi rompevo la testa per far quadrare un’idea che mi agitava da qualche tempo: mi affascinava il personaggio di Bruto, l’uccisore di Cesare… Poi, una volta, volli leggere di seguito le pagine di Svetonio, di Plutarco e, infine, la tragedia di Shakespeare; e mi fu chiaro che stavo perdendo tempo: il drammaturgo si era servito del cronista e dello storico come sceneggia tori e aveva aggiunto i dialoghi, cioè la poesia.”
Ma quell’idea, affondata dal peso della grande letteratura, tornò a riaffiorare fulminea e più vivida che mai nella mente di Francesco Rosi, uno dei più famosi e accreditati registi italiani.
In una Roma vestita d’autunno, mentre il regista si aggirava pensieroso e deluso fra le mute pietre dei Fori, arrivò a Rosi la notizia della morte di Che Guevara. “Fu un’illuminazione improvvisa: sarebbe stato lui” il suo Bruto e questa volta la poesia, ma non solo, l’avrebbe aggiunta lui.
Galvanizzato da quella inattesa ma travolgente ispirazione, il padre del bellissimo Le mani sulla città del 1963 volle subito condividere quella straordinaria intuizione con gli amici di sempre: Raffaele La Capria e Tonino Guerra, che ne furono letteralmente entusiasti. Ma la realtà fu fin da subito ben diversa e le difficoltà emersero ancor prima che Rosi partisse per Cuba. Girare un film su Che Guevara spaventava la politica nostrana, e non solo la bigotta Democrazia Cristiana. Anche in via delle Botteghe Oscure qualcuno era preoccupato per quello che ritenevano un omaggio postumo e pericoloso per un rivoluzionario da farmacia, come lo definiva Giorgio Amendola.
Timori ben conosciuti da Rosi, per il quale il politico, qualsiasi fosse la sua estrazione, era “attento sempre solo all’uso politico che si può fare di un film”, dimenticando, invece, la visione che un regista può avere di un personaggio storico, indipendente dalla condivisione delle stesse idee. Ma per un incrollabile testardo come Rosi, che aveva girato Salvatore Giuliano in Sicilia al cospetto di silenti e infastiditi mafiosi, girare quel film era una sfida da accettare senza remore, per il solo piacere di rimettersi ancora in gioco.
Il 31 ottobre 1967 Rosi parte alla volta di Cuba e dell’Havana e quella singolare avventura ha perigliosamente inizio.
A distanza di più di cinquant’anni quel viaggio, quella ricerca sul campo e di minuziosa raccolta che si sarebbe dovuto trasformare in una pellicola, rivive nel libro I 199 giorni del Che. Diario di un film sulle tracce di un rivoluzionario.
Edito da Rizzoli, questo lavoro nasce dal certosino lavoro di Maria Procino, studiosa di archivi e già autrice del bel Eduardo dietro le quinte (Bulzoni 2003), che a partire dal 2012 prese visione dei diari di quel viaggio sotto la supervisione dello stesso regista napoletano e della figlia Carolina, che ebbe l’idea di chiamare la studiosa per affidarle l’immane archivio di Francesco Rosi.
Quel “folle” viaggio attraverso Cuba e l’America latina, che ebbe una seconda e importante appendice nei primi tre mesi del 1968 (dal 17 gennaio al 17 marzo), riempì diari zeppi di appunti, osservazioni, descrizioni minute, meravigliose foto sulla realtà di quei posti, una presa diretta, una zoomata senza filtri sulla inopia e la rassegnazione della gente che Rosi incontrò, (bellissime e umanissime le pagine in cui si descrivono i campesinos) ma anche sulle speranze, mai sopite, di persone che avevano affidato al mito del Che e alla sua rivoluzione totale per estirpare definitivamente la mala pianta dell’ingiustizia da luoghi bellissimi e incantati, il loro ultimo sogno.
Reportage di guerra, documentario in parole, diario intimo, ma anche attento e scrupoloso saggio, questo e molto altro è I 199 giorni del Che, un libro nato dal groviglio polveroso di mille carte, dalle emozioni dirette provate da un regista che ha sempre voluto attraverso i suoi film cercare di raccontare i fatti attraverso angolazioni diverse, percorsi inconsueti ma drammaticamente veri.
Quel film alla fine non si fece, il regista del Caso Mattei perse la sfida, i suoi fiduciosi calcoli si rilevarono errati difronte all’ottusità dei politici, rispetto ai quali la Mafia, per dirla con le parole dello stesso Rosi, era decisamente “uno scherzo”.
Il regime cubano, infatti, sulle prime favorevole all’idea di un film sul Che e sulla rivoluzione, si trovò, alla fine, contrario quando comprese la portata “rivoluzionaria” del lavoro di Rosi. Non una pellicola agiografica ma un film libero, indipendente, una straordinaria occasione per far conoscere la fascinosa America latina, senza filtri, lontano da artefatti cliché, in tutte le sue infinite sfaccettature.
Ma quell’idea, che vide la luce in un autunno romano, e che non divenne mai un film, tuttavia, non naufragò, arrivando, al contrario, dopo un viaggio di più di cinquant’anni, quando il naviglio sembrava ormai affondato a largo, a lambire le coste di una storia che è stata troppo presto rimossa e che ora, invece, ritrova voce grazie alle parole di una grande e indimenticato regista.
Maurizio Carvigno
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