Le cose che bruciano, ultimo libro di Michele Serra, al netto della copertina rosso fuoco e del titolo incendiario, è un romanzo che non infiamma.
Mi attendevo di più dall’ultimo romanzo di Michele Serra.
Dopo aver divorato Gli sdraiati ero consapevole che difficilmente avrei letto un’opera sullo stesso piano ma non pensavo che questo nuovo romanzo potesse deludermi.
Le cose che bruciano, ultima fatica letteraria di uno scrittore geniale come Michele Serra, edito da Feltrinelli, è un libro che, al netto degli intenti pirotecnici del titolo e della copertina, non arde.
Protagonista è Attilio Campi, un ex politico che dopo una breve e polemica parentesi politica, decide di sparire, di eclissarsi, di scendere dal mondo.
Fatale, in tal senso, è la sua unica proposta di legge: quella che mira a reintrodurre l’uniforme a scuola. Un’idea che nelle intenzioni del parlamentare era giustificata dalla volontà di contrastare lo sbriciolamento della società umana.
Per Attilio Campi l’uniforme avrebbe permesso «di ridare significato alla parola comunità» e, attraverso quella, agli stessi ragazzi, alle future generazioni.
La proposta, pur mutuata dall’esempio di un paio di città del Nord Europa, viene aspramente criticata, al punto che Campi, travolto dal fuoco amico e da quello delle opposizioni, preferisce uscire dalla porta di servizio, semplicemente sparendo.
Si eclissa, come un ex incallito peccatore, nell’eremo di Roccapane, un assurdo cucuzzolo, come lo chiama la sorella Lucrezia, dove sceglie di coltivare lo zafferano.
In un luogo sperduto, lontano dalle tentazioni della città e di una carriera politica solo sfiorata, Campi ritrova se stesso fra legna da accatastare, campi da arare e l’ossessione per distruggere o meglio bruciare, gli oggetti del passato, quelli inutili.
Tavoli, divani e principalmente lettere della madre. Missive dal contenuto forse spinoso che, per vari motivi, è opportuno non aprire, non leggere, lasciando che finiscano nel limbo delle parole perdute.
L’ossessione per il catartico falò è il filo rosso che tiene insieme tutto il libro, ma che, in talune circostanze, tende a perdersi.
Al netto della scrittura briosa e comicamente ficcante, da sempre cifra di Michele Serra, è proprio la storia a non decollare mai del tutto.
Imbozzolata in una trama che non si sviluppa mai appieno, la storia di Attilio Campi è soffocata da personaggi quasi senza spessore.
Il contadino Severino, la vigorosa Bulgara o le donne vicino ad Attilio, la moglie quasi sempre assente e la sorella che assomiglia a Kate Moss, sono figure che latitano nelle pieghe del romanzo di Serra.
Proprio questa asfissiante vicinanza, non permette al vero e unico protagonista del romanzo, Attilio Campi, di prendere definitivamente il volo, rimanendo radente al polveroso suolo.
Scritto in prima persona Le cose che bruciano non è certamente uno dei libri migliori di Michele Serra, anche se non mancano momenti di esilarante scrittura.
Straordinari sono i pezzi dedicati alla narrazione delle conseguenze della proposta di legge sull’uniforme, quelli in cui Campi incontra il catechizzante Giuseppe Carradine.
Ma è nel racconto dei tentativi di riappacificazione fra Campi e il giornalista Mirabolani che ritroviamo Michele Serra.
Proprio in quest’ultimo caso riemerge con forza il Serra ironico e pungente, quello dei suoi più fortunati romanzi, ma anche quello delle pagine di Cuore, l’inserto satirico del quotidiano “L’Unità”, di cui Serra fu uno dei fondatori.
Ma come dicevano i latini dulcis in fundo.
Giunto alle ultime pagine, Le cose che bruciano regala un finale decisamente inaspettato che riscatta la precedente monotonia narrativa.
Durante una cena tra fratelli che non si vedono da tempo, ignorando quasi tutto l’uno dell’altra, ecco sopraggiungere maliziosa e infingarda una strisciante verità.
Mentre la cameriera, ignara di aver interrotto una così rilevante pagina della vita di Attilio Campi, serve due porzioni di risotto, la verità taciuta per decenni si disgela, anticipando un conto salatissimo e mettendo fine a una cena indigesta.
Ma su quel tavolo, sul far della notte, rimane un’atroce, insopprimibile eredità.
Sono proprio queste ultime, bellissime pagine, a riscattare il libro di Serra, donando al lettore momenti di gradevolissima lettura, e facendo diventare familiare il protagonista principale del romanzo:
«Mi chiamo Attilio Campi. Abito a Roccapane e coltivo zafferano. Vado verso i cinquanta -non è l’età perfetta? Anche se indosso, sotto il giaccone, una pazzesca giacca con i revers sciallati, del tutto inadatta a uno statista, sono l’autore di una legge, quella sull’uniforme obbligatoria nelle scuole di ogni ordine e grado, che avrebbe cambiato in meglio, molto in meglio, questo paese.»
Maurizio Carvigno
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