Un libro per conoscere la figura di Aldo Moro attraverso una ricostruzione storica approfondita di uno dei protagonisti dell’Italia repubblicana.
Lo scorso anno la casa editrice “il Mulino”, in occasione dei cento anni dalla nascita di Aldo Moro, ha deciso di pubblicare un nuovo libro sullo statista pugliese.
La domanda, parafrasando Antonio Lubrano nella sua celebre trasmissione, nasce spontanea: c’era bisogno, nel panorama saggistico italiano di un nuovo libro su Aldo Moro, nonostante le decine di testi a lui dedicati? La risposta è: assolutamente sì.
Perché quando si parla, si scrive su e di Aldo Moro, lo si fa quasi esclusivamente per ricordare la sua drammatica fine, quel sanguinoso rapimento, che costò la vita a tutti e cinque gli uomini della scorta, nonché quei cinquantacinque giorni del suo sequestro, conclusosi con l’epilogo peggiore, che tennero con il fiato sospeso milioni di italiani.
Un fatto, di certo importante, nodale nella storia d’Italia, per cui si può legittimamente parlare di un prima e un dopo l’eccidio di via Mario Fani, ma che senza dubbio penalizza, e non poco, la figura del politico di Maglie, perché legare la memoria di uno dei padri costituenti alla sola sua tragica fine, per quanto importante sia stata, è profondamente iniquo.
A rendere, almeno parziale giustizia, nei confronti di un uomo, di uno statista straordinario, condannato dopo la sua morte a una sorte di convetio ad escludendum, ci pensa il bel libro di Guido Formigoni, dal semplice ma evocativo titolo: Aldo Moro. L’autore di questo corposo saggio, professore di storia contemporanea alla Iulm di Milano, restituisce all’Italia la biografia di un uomo, come si legge nella quarta di copertina, “che non era stato mai popolare, non era stato un leader ampiamente amato o un capopopolo” ma che era stato “un politico con una strategia”.
Scritto seguendo un rigoroso percorso cronologico, questo saggio, basato su un amplissimo apparato di note, ripercorre tutte le principali tappe della vita e della carriera politica di Aldo Moro, dalla sua infanzia, nella natia Maglie, agli studi a Bari; dalla brillante e precocissima carriera universitaria all’apprendistato nella Fuci (federazione universitaria cattolica italiana) fino all’ingresso, inizialmente in sordina, nella politica italiana, a partire dall’Assemblea Costituente, dove il giovane Moro fu senza dubbio uno dei protagonisti.
Basti solamente pensare che fu proprio Moro, uno dei componenti della cosiddetta “Commissione dei 75” (il ristretto gruppo di lavoro a cui spettò il compito specifico di redigere la nuova carta) a risolvere l’impasse sul primo articolo della nascente costituzione italiana.
I socialcomunisti, infatti, ritenevano che l’articolo in questione avrebbe dovuto così recitare: L’Italia è una repubblica democratica fondata sui lavoratori. Tuttavia, per la corrente democristiana e in particolare per quella liberale, l’inserimento del termine “lavoratori” non era opportuno, in quanto conferiva alla futura costituzione, nel suo articolo chiave, un riferimento pericolosamente marxista. Moro, allora, pur avendo votato inizialmente l’emendamento di Togliatti sulla Repubblica dei lavoratori, riuscì, tuttavia, “a convincere i comunisti dell’equivalenza di una dizione diversa, quale quella che poi effettivamente fu adottata, sulla base di un emendamento Fanfani”, ovvero L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro.
Un pressing su Togliatti e Nenni da parte di Moro che alla fine fu vincente, mettendo in risalto una delle qualità, già ampiamente dimostrate dal politico pugliese nell’esperienza alla Fuci, migliori: la capacità di mediare, anche in ambiti apparentemente impossibili, una dote, tuttavia, che fu spesso ritenuta come un grande limite del politico meridionale, come un segno di debolezza, di poca chiarezza, di inciucio, si direbbe oggi.
Nulla di più sbagliato perché per Moro mediare significava smussare anche gli angoli più spigolosi, cercando di avvicinare parti anche molto distanti nell’ambito di un disegno più ampio che coincideva con l’interesse collettivo e non con quello personale.
Il saggio, poi, analizza il ruolo determinante di Moro nell’avvento del centrosinistra, unica soluzione percorribile di fronte alla crisi definitiva della strategia centrista, l’esperienza da premier nel difficile quinquennio 1963/68, quella successiva da ministro degli esteri, la più appagante sicuramente per Moro.
La penultima parte del libro di Formigoni, l’ultima è inevitabilmente dedicata al rapimento e all’assassinio, ricostruisce la difficile gestione della terza fase, gli ultimi otto anni di vita di Moro, dal 1970 al 1978, in cui il grado di difficoltà politica e sociale del paese raggiunse l’apice.
Anni che videro il definitivo tramonto del centrosinistra, la dolorosa gestione da parte del Democrazia cristiana dell’esito del referendum sul divorzio, che eliminò politicamente Amintore Fanfani e che rischiò di spaccare lo stesso partito, ma anche l’emergenza terroristica e la necessità di aprire ai comunisti, operazione che vide ancora e naturalmente
Moro protagonista seppur con un ruolo politico più defilato, attraverso la formula inconsueta dei governi di solidarietà nazionale, qualcosa magari di diverso dal compromesso storico ipotizzato da Berlinguer, ma che, comunque, segnava in modo unico la politica italiana e non solo, suscitando attese ma anche preoccupazioni.
Il libro di Formigoni restituisce, quindi, intatto l’uomo Moro con le sue scelte, le sue convinzioni, la sua retorica spesso troppo complessa e colta, specie se paragonata a quella di alcuni politici attuali, il suo carattere riservato ma mai schivo, la sua immensa cultura, il suo infinito amore per la sua famiglia che mostrò intatto fino all’ultimo giorno, il suo intimo cattolicesimo, dolcemente venato da un lieve e poetico dubbio ad un passo dalla morte:
Vorrei capire, con i miei occhi mortali come ci si vedrà dopo.
Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo.
Moro, nel panorama politico italiano, è stata una punta di diamante che quella brutale morte ha, solo in parte, rimosso attraverso una damnatio memoriae cominciata già in quella prigione del popolo e proseguita, poi, dopo quel tragico 9 maggio.
Il bel libro di Formigoni va oltre quella drammatica data e quel cofano aperto, come le fauci di un’avida bocca, della Renault 4 rossa in via Caetani, ripercorrendo la carriera di un politico con troppi nemici, con magari colpevoli esitazioni, ma con un respiro davvero europeo da vero, autentico statista, nel solco tracciato da De Gasperi, Adenauer e Schumann.
Aldo Moro commise certamente molti errori nella sua attività politica, ma fu sempre animato da ideali sinceri. Restituire l’uomo e il politico, al netto di quell’ immane tragedia che segnò tragicamente la sua fine, è, dunque, il modo migliore che uno storico e che la memoria possa fare.
Maurizio Carvigno
[…] politico che, come ricorda lo storico Guido Formigoni, voleva “consolidare il sistema democratico e accompagnare l’evoluzione ideologica e […]