Notti Romane | #TerzaDose

racconti brevi online - notti romane terza parte

Liliana Rinaldi, Marco Vitali, Emilio Galdani

Quella, signori, è inutile che ve lo dica, non fu l’unica occasione in cui Marco si dimenticò, diciamo così, d’amare Liliana e di non avere occhi che per lei, come le diceva spesso. Capitò che partì poco fuori Roma per qualche giorno, senza avvisare, in una villa sul mare di qualche suo compare. Si concesse allora una lunga camminata al chiaro di luna sulla battigia con una certa Martina, conquista dell’ultima ora, una donna mora e dalle forme esasperate, volgare nelle parole ma Donna, e tanto bastava.

Quando fu di ritorno, lo raccontò a Liliana e davanti alla sua furia, la convinse che tanto non c’era niente di male, d’altra parte, a far conversazione, e che esser fidanzati non voleva certo dire rinunciare alla propria libertà. Liliana si convinse che fosse normale, e si convinse però con dolore, con angoscia. Marco era, nelle altre occasioni, con lei sempre gentile e sorridente. Questo pure le doveva bastare, e si sforzava perchè le bastasse.

All’angolo con via del corso, c’era un caffè che amava particolarmente e, in Estate, metteva i tavolini fuori. C’era stata una volta con la madre, da bambina, e aveva preso un pasticcino al cioccolato che le aveva sporcato il viso fino al naso. Ora, di quell’atmosfera luminosa di festa, sembrava non esserci rimasto più niente: Marco le sedeva davanti, dietro le vetrate di quello stesso Bar. Si acconciava con gusto un ricciolo nero che gli solleticava la fronte e parlava di cose sciocche di suo interesse, dell’ennesima festa, del gioco del calcio, di cose che passano e son fatte solo per occupare il tempo.

Liliana lo guardava e davvero pensava che niente, niente, era rimasto di quell’atmosfera luminosa di quando era bambina: il Dicembre di quel ’69 era tagliente e concitato. Sì, pensava, tagliente e concitato. Guardò Marco e, per la prima volta, si pentì d’amarlo e triste si disse che non poteva farci nulla contro l’amore, che certo le forze di combatterlo non le aveva lei, e tornò docilmente alla convinzione che tutto era bene così com’era.

Da lontano, gettò uno sguardo a quella Roma uggiosa fuori le vetrate: i marmi bianchi dell’altrare della patria le sembrarono avere venature grigie, così come le rade auto che sfilavano nella piazza.

Liliana fece un segno che voleva dire: andiamocene e Marco si alzò, si sistemò il bavero, le spolverò della polvere immaginaria dalla spalla, le prese la mano, e in silenzio scivolarono fuori dal locale.

Marco si era abituato ai lunghi silenzi della ragazza, alle parole razionate. Non siamo certo tutti uguali, al mondo, e nei mesi aveva imparato che alle sue labbra serrate corrispondeva spesso un turbinio di pensieri senza forma. Liliana pensava tanto, troppo, e aveva pensieri pesanti e neri, ma era felice da morire quando finalmente lei si abbandonava alle parole e finalmente gli parlava.

Si sforzava di capirla, anche se gli era difficile capire come si potesse pensare a cose astratte e poco reali. Per Marco Vitali, signori, la morte è la cosa meno reale a cui si possa pensare perchè è, se ci si pensa bene, l’unica cosa che si è certi di non incontrare mai.

Ora, non so se chi legge creda al destino, a Dio, a un fato superiore ma, perchè la storia possa continuare, ho bisogno che crediate.

Liliana e Marco andavano infatti, a braccetto nelle loro menti così divise, alla presentazione dell’ultimo saggio di Emilio Galdani che, manco a dirlo, non aveva più visto Anna, e ora era tutto preso nella sua attività di scrittore, concedendosi, oltre alla madre e qualche sigaro, poche distrazioni.

Marco e Liliana appena entrati furono investiti da un tepore piacevole e zuccheroso, così in contrasto con la figura minuta e nervosa di Emilio, che già parlava dal fondo della sala del suo ultimo lavoro. Stava composto, una gamba morbidamente sull’altra, il viso di chi non sta parlando ad una sala piena o di chi lo sa e non gli importa.

Liliana si accomodò, Marco le stette accanto, un braccio poggiato sulle sue spalle.

Ma fu soltanto dopo che qualcosa crepò l’equilibrio che tanto faticosamente vi ho descritto: lo sguardo di Liliana che, mentre Emilio parlava con certi giornalisti che gli stavano attorno, si posò su di lui come disincantato, e lo vide, se lo bevve con le pupille.

“No, ovvio che Giuseppe Pinelli non è caduto casualmente dalla finestra della questura.” stava dicendo, leggermente seccato “ma io parlo di libri, non faccio politica”

Le sembrò d’averlo già visto da qualche parte ma non potè giurarci. E’ così quindi che è uno scrittore: da lui promanava un’aura quasi sacrale, un carma innegabile che le avvinghiava lo stomaco. Voglio essere come lui da grande, si sosprese a pensare Liliana, mentre Emilio rifuggiva all’ennesima domanda “Lei crede davvero sia lui l’attentatore di Piazza fontana?”

Lo vide divincolarsi all’indietro, facendo un gesto di fastidio con la mano, urtandola leggermente.

“Scusami. Non sopporto i giornalisti. Spero non ti sia fatta nulla.”

Liliana gettò uno sguardo già colpevole a Marco che bighellonava fuori dalla libreria, sfogliando una rivista.

“Anch’io scrivo.” disse Liliana, senza sapere perchè. Voleva che lui l’ammirasse come d’improvviso le era capitato di ammirare lui. Invece disse solamente bene e, con quel passo quasi di danza, si allontanò.

Si sarebbero rivisti.

Serena Garofalo

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Figlia di Partenope e degli anni 2000, scribacchina ambulante, studentessa di Lettere per folle amore.

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