“Le esperienze che contano sono spesso quelle che non avremmo mai voluto fare, non quelle che decidiamo noi di fare”
Lo dice lui stesso, Alberto Pincherle Moravia, e queste poche parole descrivono quanto meglio i suoi primi anni di vita.
Nato a Roma agli inizi del novecento da una ricca famiglia di borghesi, si ammala, ancora bambino, di tubercolosi ossea. Ed è questo evento, terribile e inaspettato, che costringe il piccolo Alberto ad una vita appartata, ad una educazione privata, lontana dai banchi di scuola, donandogli in cambio quello sguardo alienato da estraneo che ne caratterizzerà l’intera produzione.
Non a caso il suo primo lavoro – ed è subito il capolavoro- s’intitola, appunto, gli indifferenti: inizia così una carriera di scrittore e giornalista piena di splendori.
Negli anni trenta, inviso al regime per le sue posizioni antifasciste, approfitta della sua funzione di inviato giornalistico e gira L’Europa e L’america, maturando una coscienza culturale e sociale e tenendosi lontano dai guai.
Celebre è il matrimonio con Elsa Morante: un’amore dall’eco enorme, dilaniante e contorto, descritto dallo stesso Moravia come “una disperata dedizione” nella raccolta di epistole “quando verrai sarò quasi felice.” Appunto, quasi. Dopo 26 anni i due si lasciano, pur senza mai divorziare.
Il nostro Moravia, nonostante le poco fortunate vicende private, non si è tuttavia mai fermato, neppure nel dopoguerra; anzi la sua presenza diventa quasi ingombrante: l’uomo si pronuncia ed è ben presente su tutti i temi più urgenti, che siano argomenti filosofici, politici, letterari. Nel 1984 entra nel parlamento europeo come indipendente nelle liste del partito comunista.
Muore il 26 Settembre del 1990 nella sua bella Roma.
Prima fase: l’indifferenza
Già a partire dal primo romanzo, Moravia dipinge a tinte fosche la sua classe d’appartenenza, la borghesia. E’ una classe ormai svuotata dai propri valori, corrotta, chiusa e soffocante; una sorta di cappa sotto la quale si muovono gli anti-eroi moraviani a partire dal protagonista degli indifferenti, Michele. Cosa fa Michele, ad esempio, per meritarsi il titolo di anti-eroe? E’ quello il punto: niente. Pur cogliendo con un disprezzo lucido , quasi con crudeltà, la pochezza dei suoi simili, non trova alternative e non riesce a stabilire collegamenti veri con ciò che lo circonda. L’indifferenza se lo mangia vivo, non gli lascia che i vagheggiamenti di un mondo antico e migliore dove essere “tragico e sincero”
Quello che nasce con questo primo romanzo, Moravia è giovanissimo quando lo scrive, è ancora a livello embionale. Il giovane, questo lo dirà una volta divenuto adulto, non aveva inizialmente intenti critici. Almeno a livello conscio.
Seconda fase: esistere
La situazione è questa: c’è un rifiuto radicale della realtà che, per forza di cose, si traduce con una brutta fine- e come potrebbe essere diversamente?- dei personaggi. Soluzione ( opinabile, per carità): abbandonarsi al vivere, quindi semplicemente rassegnarsi ad esistere. Questa esistenza biologica e semplice è ritrovata da Moravia nel popolo; il proletariato diventa l’alternativa ad una classe borghese intimamente minata: sono gli anni della Romana, della Ciociara, dei racconti romani. Non bisogna fermarsi alle apparenze: in realtà il focus dell’autore è ancora la borghesia! L’immediatezza del popolo è vagheggiata solo in quanto antitesi della malattia intima che corrode la sua classe d’appartenza.
Terza fase: la noia
Quando ha ormai passato la metà del cammino di sua vita scriverà un’altra delle sue opere maggiori, come a scrivere il finale definitivo del suo pensiero. La storia s’intitola la noia e, al lettore attento non sfuggirà che la noia di cui parla altro non è che l’antica indifferenza. Ora però Moravia ha qualche strumento in più per definirla: parla di alienazione e reificazione, cioè alla riduzione dei rapporti tra persone ai rapporti tra cose. Moravia giunge dunque ad una più corretta individuazione di un problema sui cui ha discusso una vita intera. Il suo percorso si è compiuto.
Serena Garofalo