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La retorica, l’erudizione e la prosa tecnica
Per comprendere l’importanza dell’opera dell’Anonimo del Sublime, è necessario prima contestualizzare l’evoluzione della retorica e della prosa tecnica.
La retorica era nata nel 5° sec. a.C. per rispondere alle necessità storiche della πόλις democratica, in cui l’arte del parlare in pubblico costituiva un sapere fondamentale per il cittadino. La nozione di “retorica” nel mondo antico, però, andava a comprendere anche ambiti come l’oratoria, la critica letteraria, la teoria della comunicazione…
In questo ambito la scuola di Isocrate voleva rappresentare dei modelli educativi (παιδεία) in modo tecnico per la formazione della futura classe dirigente.
L’interesse per la retorica divenne sempre più teorico e andò a comprendere anche l’ambito filosofico: Aristotele e il suo allievo Teofrasto (autore dei Caratteri, libro importante per la commedia); l’unica opera integra è Sull’elocuzione del peripatetico Demetrio Falereo (l’attribuzione è in realtà apocrifa), che rappresenta una riflessione critica che segue le teorie aristoteliche, ma è anche incentrata sul tema dello stile che sarà poi importante per l’asianesimo e l’atticismo.
Asianesimo ed atticismo
Il tema dell’asianesimo, stile pomposo e patetico, corrisponde al periodo di decadenza di Atene e riguarda non solo l’ambito letterario, come si può benissimo notare dal patetismo del compianto di Afrodite che soffre per Adone nei passi alessandrini, ma anche in altri ambiti, ad esempio, nell’arte, come l’altare di Pergamo.
Il purismo linguistico venne invece ricercato da autori come Luciano e i rappresentanti della Seconda Sofistica in questo tentativo di ricreare un greco esemplare, scaturito dalla lingua attica di Lisia, Demostene e Senofonte. L’atticismo è il primo movimento di purismo linguistico nella storia della letteratura, segno di un cedimento nell’energia creativa di una lingua e una cultura.
A Roma sorsero diverse scuole di retorica, ma non furono altro se non una riproposizione dei principi teorici della retorica greca, a partire dal trattato più antico, ovvero l’anonimo Rethorica ad Herennium, fino alle opere di Cicerone e Quintiliano. Il più importante tra i maestri di retorica greci a Roma fu Cecilio di Calatte, fonte d’ispirazione per l’autore del Sublime.
Due scuole di pensiero per la retorica
Per la retorica c’erano due scuole di pensiero: da una parte gli Apollodorei, discepoli di Apollodoro di Pergamo, maestro del futuro imperatore Augusto, consideravano la retorica come scienza, canone, regola; dall’altra, i Teodorei, discepoli di Teodoro di Gadara, maestro di retorica di Tiberio, vedevano la retorica come arte, ispirazione.
Nella realtà queste due scuole di pensiero non erano così l’una contro l’altra in modo netto, ma nel concreto vi era una sorta di via di mezzo (anche Cicerone diceva che il buon oratore è un misto tra talento naturale ed esercizio; a seconda delle fasi del processo erano necessari diversi linguaggi).
Dionisio di Alicarnasso
Fu maestro di retorica a Roma e ha scritto: Sugli antichi autori, in cui si trattava un’introduzione ad una trattazione della retorica attica; Sugli studi di Demostene; Sulla disposizione delle parole, incentrata sul tema del ritmo e della melodia della frase (importante, quest’opera, anche per la citazione di alcuni frammenti, come quelli di Saffo); Sull’imitazione, dove si teorizza il raggiungimento della perfezione stilistica attraverso l’imitazione degli autori attici (Dionisio prediligeva Demostene, mentre Cecilio di Calatte – ebreo di formazione greca che ha insegnato a Roma – prediligeva Lisia), e, sulle orme del peripatetico Teofrasto, voleva un ideale stilistico incentrato sulla medietas, ovvero uno stile che fosse medio tra l’umile e il sublime.
Anonimo del Sublime
Secondo solo alla Poetica di Aristotele, il trattato di critica letteraria Sul sublime (Περὶ Ὕψους) è composto in forma epistolare. Il suo autore è ignoto, ma l’intestazione riporta la scritta “Dionisio oppure Longino”. Tuttavia, nessuno dei possibili autori collegabili può essere ritenuto valido.
L’opera prende spunto da un altro Περὶ Ὕψους di Cecilio di Calatte che si contrappone al suo e da questa confutazione noi conosciamo l’opera avversaria. Ma anche in questo caso, una discussione che ha una distanza di due secoli risulta molto discutibile.
Tema della decadenza dell’eloquenza
Dal punto di vista temporale, probabilmente il Περὶ Ὕψους è collocabile nella prima età imperiale, dove il tema della decadenza dell’eloquenza era di moda. Infatti era presente, per esempio, anche nel Dialogus de oratoribus di Tacito, per cui si tende a rintracciare due principali cause: posizione politica, secondo cui non c’è più oratoria perché non c’é più libertà di parola (παρρησία), tesi che viene spesso attribuita ad una persona loquens dato che non si vuole accogliere su di sé la responsabilità di quest’idea, sebbene sia quella che si pensa; corruzione morale, secondo cui la situazione è pace, ma Tacito riconosce che questa pace universale ha un costo, ovvero siamo corrotti dalle passioni, e questo a causa della corruzione delle istituzioni (la tesi della corruzione morale è un riproporre, in modo più pacato, la posizione politica).
Tale tema è stato ripreso anche da Petronio, che accenna alla decadenza educativa, facendo riferimento alle scuole e agli scrittori del passato, quando non c’era un solo modello letterario, ma anche umano. Anche Quintiliano porta avanti tale tesi.
Altri temi del Sublime
Il Περὶ Ὕψους è considerato un trattato di estetica (in realtà opera polivalente perché tratta anche di retorica e critica letteraria), che però si concentra in modo particolare sul tema del sublime, ovvero l’ακμή dell’arte, eccellenza di espressione che va indagata nelle varie forme della manifestazione estetica.
La sublimità è il massimo momento in cui si manifesta la genialità, qualcosa che ci colpisce al punto tale da non poter resistere. Non possiamo dire che tutta l’opera sia sublime, ma è un momento fulmineo.
Importante è notare il tema dell’ispirazione (si veda, in questo caso, la Pizia), che porta l’idea che l’esempio di un grande sia utile per la creatività di un altro. Il bello non è quindi chi imita perfettamente la realtà, ma qualcosa che colpisce realmente (sublime, che non è perfetto ovunque, ma un momento di massima importanza).
Il genio è imperfetto!
Quindi è meglio un genio imperfetto rispetto ad un mediocre perfetto, come si può notare, in primis, in Omero, dove ci sono diversi errori, ma anche in Apollonio Rodio; i precisini, che non vengono meno alle regole, sono inferiori rispetto ad autori magari non completamente perfetti. Un esempio di “genio imperfetto” può essere Euripide, il quale, però, quando scrive una ῥῆσις, è insuperabile.
Rimane il dubbio se l’Anonimo sia rodinese (Rodi come via di mezzo tra il rigore dell’atticismo e l’astro creativo dell’asianesimo).
Discussione etica nel Sublime
Un altro tema centrale per l’Anonimo del Sublime è quello della discussione etica: infatti solo da una grande anima può nascere una grande opera d’arte e una grande opera d’arte può rendere grande un’anima. C’è una reciprocità tra arte e vita, come si può vedere al punto 7:
[7]: «Bisogna sapere carissimo, che come nella vita comune nulla è grande, se non ciò che solo i grandi sanno disprezzare – ad esempio ricchezze, onori, dignità, tirannidi e tutte le altre cose che possiedono un fasto esteriore, ma che al sapiente non sembrano beni straordinari, tanto che non tenerli in nessun conto è di per sé un bene non mediocre (e lo prova il fatto che più ancora di chi li possiede la gente ammira quelli che potrebbero averli, ma rinunciano per grandezza d’animo) – così anche a proposito dei passi elevati sia in poesia che in prosa dobbiamo badare che non abbiano solo un’ostentazione di grandezza, dietro la quale sta molto di simulato e posticcio che, smascherato, rivela una vacuità degna più di disprezzo che di ammirazione. La nostra anima, infatti, possiede quasi per natura la capacità di esaltarsi davanti alla vera sublimità, e con nobile slancio si riempie di gioia e di orgoglio, come se avesse creato lei stessa ciò che ha ascoltato.
Quando dunque accade che un uomo colto ed esperto di letteratura ascolti molte volte un passo e ciò non disponga la sua anima alla grandezza né gli lasci nella riflessione nulla più di quanto è stato detto, anzi, dopo averlo meditato a lungo, il suo valore diminuisca, allora non si tratta di vera sublimità, perché il suo effetto si esaurisce nel momento dell’ascolto. Grande è veramente solo quello che impone una lunga meditazione, al cui fascino è difficile se non impossibile, sottrarsi e permane nella memoria vivo e incancellabile. Devi pensare che il sublime vero, e bello, è ciò che resta per sempre nel gusto di tutti. Quando infatti la stessa cosa trova il consenso unanime di persone diverse per professione, vita, gusti, età. condizione culturale, allora questa specie di concorde sentenza pronunciata da giudici diversi conferisce una credibilità salda e incontestabile all’oggetto che viene ammirato.»
L’esperienza del Sublime avvicina in modo empatico l’autore dell’opera d’arte con il pubblico, per cui si giunge in uno stato psicologico dove le due personalità individuali si annullano e si istaura un profondo legame tra questi due poli. Tale legame è possibile tramite un riconoscimento, derivante dal fatto che ogni uomo a livello psichico tende alla grandezza del sublime.
Un esempio di “sublime”
Sublime non corrisponde a ciò che è semplicemente bello, ma che genera anche un senso di spavento e di sorpresa. Quindi si potrebbe dire, per esempio, che la figura di Elena nel corso della letteratura non è mai stata sublime; al contrario lo è stata Ecuba nelle Troiane di Euripide, quando riesce ad esprimere il dolore materno di fronte alla morte dei figli:
Passo tratto dalle Troiane di Euripide
Ecuba: «Lasciatemi star così: un servigio non desiderato non è un servigio. Troppo soffro, soffersi e soffrirò! O Dei!… Tristi alleati io invoco, ma tuttavia l’invocar gli dei dà qualche parvenza di consolazione, quando la sventura ci soprende. Prima di tutto io voglio cantar la mia felicità passata, per ispirar maggiore pietà colle mie sventure. Io fui regina, e andai a nozze con un re, e generai figli valorosi, non buoni soltanto a far numero, ma i più forti dei Frigi, figli quali nessuna donna, nè troiana nè greca, potrebbe vantarsi d’aver partorito. Ma poi li vidi cadere sotto le lance degli Elleni, e recisi queste mie chiome sulle loro tombe. E dovetti piangere morto il padre loro, Priamo: non già che altri mi riferisse la sua uccisione, ma lo vidi io stessa con i miei occhi, svenato presso l’ara di Zeus Herkeios, mentre la città era presa. E le figlie che io avevo allevate, perchè andassero a onorevoli nozze con eletti sposi, mi furono strappate dalle braccia, quasi le avessi allevate per altri, e non per me. Non ho mai più speranza di rivederle! Infine, e questo è il colmo della sciagura, io, così vecchia, sarò condotta schiava nell’Ellade, e sarò costretta alle faccende meno adatte alla mia tarda età, a custodire una porta – o a fare il pane! E mi costringeranno a giacere con il mio vecchio dorso sulla nuda terra, mentre ero avvezza ai letti regali; e a indossare vesti consunte sulle mie consunte membra, vesti indegne di chi già visse nell’opulenza. Oh, meschina, quali disgrazie sopportai, e quali sopporterò a causa di una sola donna! O Cassandra, o figlia mia, partecipe dell’estro divino, in seguito a quali sciagure perdesti la verginità! E tu, dove sei, o misera Polissèna? Sebbene io abbia avuto molti figli, nessuno di loro più mi assiste. Perché, dunque, volete rialzarmi da terra? Quale speranza resta a me? Guidate il mio piede, che un giorno, a Troia, incendiava con passo superbo, in un angolo remoto, dove io, giacendo sulla nuda pietra, mi consumi fra le lacrime. Nessun uomo, per quanto posto in alto, si può giudicar felice, prima che egli sia giunto alla fine della sua vita.»
Tono e lingua
Il tono non è quello manualistico e pedantesco, che si può trovare nell’impostazione retorica, ma quello tipico della formula divulgativa letteraria come era l’epistola.
La lingua è un misto tra κοινὴ ed espressioni tecniche, forme classiche rare e metafore.
Lorenzo Cardano