Sul web è ovunque e ormai tutti lo vogliono. E’ lui, l’unicorno! Da simbolo a idolo da teenager ecco coma ha saputo reinventarsi.
Unicorn latte, torte effetto rainbow e vestiti che neanche una fatina…è la unicorno-mania che imperversa sul web da qualche settimana. Ma quella che sembra una novità assoluta non è che un ritorno di fiamma perché la unicorno-mania ha già colpito diverse volte nei secoli passati.
Tra Cinque e Seicento ad esempio il corno del magico cavallo bianco era tra i tesori più ricercati. Come si faceva per ottenerlo? Ecco per voi un pratico libretto di istruzioni: punto primo, trovate una ragazza vergine disposta ad addentrarsi da sola nel bosco. E’ difficile convincerla? Provate con una lauta ricompensa. Punto secondo, aspettate che l’unicorno si avvicini a lei e e le si addormenti sulle ginocchia. Punto terzo, liberate la vostra muta di cani e uccidete il cavallo magico. Ora il corno è finalmente vostro. Bello, ma a che serve? Dicono che curi dai veleni, ma non ci giurerei.
Come per tutte le mode esisteva la versione tarocca dell’oggetto del desiderio. Molti principi infatti, convinti di possedere il vero autentico corno di unicorno, avevano in realtà il corno di un narvalo. Cioè di un amabile cetaceo che popola i mari del nord e che ha avuto la sfortuna di possedere un corno proprio uguale a quello in questione. L’unicorno era per eccellenza il simbolo della purezza e il fatto che di addormentarsi sulla ragazza era un chiaro segno delle passioni momentaneamente sopite in attesa di eventi futuri.
E in arte? Qui popola i ritratti di nozze. Cioè quei dipinti che servivano allo sposo per sapere che faccia aveva la propria fidanzata. L’infuso d’Arte di oggi ve lo mostra evocato dalla mano di un grande: Raffaello. La sua Dama col Liocorno, dipinta tra il 1504 e il 1506 ed oggi conservata alla Galleria Borghese di Roma è tra i dipinti unicorneschi più controversi e travagliati. E per questo, manco a dirlo, più affascinanti. Anche se pure la fontana di Atteone non scherzava.
Potete visionare il quadro qui.
Analisi
L’opera rappresenta una bella ragazza bionda vestita e pettinata secondo le ultime tendenze di primo cinquecento: con la guburra. Un costosissimo abito di velluto e seta con delle enormi maniche. Non il massimo della praticità. Sullo sfondo un elegante loggiato ed un paesaggio piuttosto neutro. Giusto qualche montagna, del verde, forse un lago. Il pezzo forte della questione si sta facendo coccolare dalla signora. Questo infatti più che un unicorno schivo e selvatico sembra un mini pony da salotto. Bruttino, di un colore indefinibile e con delle stranissime orecchie.
Cosa gli è successo? Dov’è finito il nobile destriero bianco? E’ proprio da queste domande che si parte alla ricerca dell’unicorno perduto. La faccenda infatti è una vera e propria odissea storico artistica e il liocorno non è che la punta dell’iceberg.
Il dipinto nasce dalle mani di Raffaello come ritratto di nozze ma resta poco più di un abbozzo. Non venne infatti mai terminato per non si sa quali motivi. Forse la partenza per Roma del 1506? Forse la morte di uno dei due fidanzatini? Non ci è dato sapere. Impolverata e dimenticata la povera tela capita tra le mani di Giovanni Antonio Sogliani, pittore minore. Lui completa l’opera aggiungendo alcune parti dell’abito e un grazioso cagnolino. Un canonico simbolo di fedeltà, niente di originale per una futura sposa. Anche il gioiello che indossa rimanda dritti dritti alle nozze. Il nodo è un chiaro “legame” mentre rubino e zaffiro sono allusivi alle virtù coniugali. La perla scaramazza rimanda invece alla sua futura maternità. Simboleggia la femminilità creatrice. Più chiaro di così…
E l’unicorno? Eccolo che arriva. Pochi anni dopo infatti un ignoto pittore ritocca, ancora, il dipinto trasformando il cagnetto nell’unicorno che vediamo. Ecco spiegato perchè è così bruttino. E perché sta in una posizione che nessun cavallo assumerebbe mai. A questo punto alla fedeltà del cane si sostituisce la castità consapevole del liocorno. La giovinetta conosce bene le passioni che prova ma le sopisce in attesa del matrimonio.
Le peripezie del ritratto però non sono ancora finite perchè dopo neanche cent’anni di pace un altro ignoto pittore trasforma la donna da fidanzata a santa. Le copre le spalle con un mantello e dipinge sopra all’unicorno una ruota dentata e una palma da martirio.
Ora è una Santa Caterina d’Alessandria. Ed è così che arriva agli occhi dei critici fino al 1935. Anno in cui una radiografia mostra che il dipinto è fatto a strati. Come un tiramisù per intenderci. Individuate le varie epoche viene ricostruita tutta la storia che avete appena letto.
Lo stile
In conclusione le consuete due parole sullo stile. Tra i tanti presenti quello di Raffaello. Non me ne vogliano gli altri ma ubi maior…
Qui il grande pittore risente dell’opera di un altro mito: Leonardo. Basta guardare la posizione della donna. Mani incrociate, composizione piramidale, viso e sguardo ben indagati psicologicamente. Vi ricorda nulla? Proprio lei. la Monna Lisa. Solo che qui il loggiato è dietro e non davanti così che la signora non fa affatto parte del paesaggio. Lo sfondo fa solo da sfondo. E se pure c’è qualche traccia di sfumato leonardesco, quelle montagnucce e quel praticello appaiono decisamente sottotono.
Un altro magico, è il caso di dirlo, Infuso d’Arte è finito ma vi aspettiamo tra due settimane con un’altra tazza piena di sorprese. E buona unicorno-mania a tutti!
Chiara Marchesi