Diritti umani, diversità, giornalismo, arte: tutto questo è “Magnum Manifesto”

mostra magnum roma

Con “Magnum Manifesto” gli organizzatori hanno voluto dimostrarci che “Magnum è la fotografia” come diceva Henri Cartier-Bresson. Senza questa cooperativa di fotoreporter la storia della fotografia sarebbe stata meno ricca.

Con “Magnum Manifesto”, al Museo dell’Ara Pacis di Roma, fino al 3 giugno 2018, si festeggiano i 70 anni dalla fondazione della Magnum Photos, agenzia foto giornalistica fondata il 22.05.1947 a Parigi e a New York.

Tra i primi membri si annoverano dei mostri sacri della storia della fotografia e del fotoreportage come Robert Capa e Henri Cartier-Bresson. Ma negli anni non sono mancati i grandi artisti come Josef Koudelka.

Trattandosi di una mostra celebrativa dell’immenso e prezioso lavoro dei membri dell’agenzia, “Magnum Manifesto” è una miscellanea di immagini. Le opere in mostra sono di ben 75 fotografi. Ciò rende l’esposizione una grande occasione per gli amanti della fotografia, i cui occhi e la cui curiosità sono ampiamente gratificati.

Di ogni serie o progetto fotografico, di ogni autore, però, sono in mostra solo pochi scatti. Così c’è molta varietà nel genere di immagini. Ma le impressioni e le emozioni che si provano ad ammirarle vengono presto interrotte. Si passa ad un altro gruppo di foto e ad altre emozioni.

Il rischio di tanta varietà – di temi, di stili, di autori – è che “Magnum Manifesto” lasci un po’ di confusione nella mente del visitatore.

L’intento storiografico e celebrativo, però, è perfettamente raggiunto.

La mostra “Magnum Manifesto” è suddivisa in tre sezioni. Ognuna di esse raccoglie alcune delle fotografie più significative a seconda delle fasi storiche.

La prima sezione, “Diritti e rovesci” (human rights and wrongs), riguarda il ventennio tra il 1947 e il 1968.

Tra il 1946 e il 1948 viene stilata la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Vi si trovano gli stessi valori di libertà, uguaglianza e libertà che ispirano i membri dell’agenzia. La Magnum Photos, infatti, accoglie fotoreporter di ogni provenienza, uomini e donne.

Negli anni ’50 e ’60 gran parte dei progetti fotografici, individuali o collettivi, sono rivolti al concetto di universalità e alla condanna di qualunque tentativo di negarla.

Quindi, nella sezione “diritti e rovesci”ci siamo intenerite davanti alle immagini, piene di intimità, di Eliott Erwitt. Ci siamo lasciate affascinare dalla fotografia sociale di Eve Arnold, che documentano la realtà e la ribellione alle ingiustizie dei cittadini afroamericani. Ci siamo commosse di fronte ai bambini di Santiago immortalati dagli scatti di Sergio Larrain, ma anche al dolore degli americani per la morte di Bob Kennedy nella serie “Funeral Train” di Paul Fusco.

La seconda sezione, “Un inventario di diversità” (An inventory of differencies) raccoglie fotografie scattate tra il 1969 e il 1989.

Negli anni ’70 l’edonismo generale culminerà nell’individualismo carrierista anni ’80. In questi anni, i fotografi Magnum si ritrovano impegnati, più che in passato, in incarichi corporate e pubblicitari. Nel frattempo, però, si dedicano più a lungo anche a progetti personali, con una forte impronta autoriale.

Il soggetto preferito dei fotografi dell’agenzia è la figura dell’altro: l’“alieno”, il “selvaggio”, il“malato”, il “folle”, l’“emarginato”. Finora, hanno sempre ricercato le somiglianze tra esseri teoricamente uguali. Ora non è più importante documentare o testimoniare l’uguaglianza tra essere umani e i loro diritti, negati o conquistati. Nel secondo ventennio della Magnum, i suoi fotografi vogliono mostrare al mondo le diversità tra gli essere umani. In un certo senso il diritto di stare al mondo di chi è diverso.

In questa sezione, spiccano i lavori delle donne e sulle donne. Susan Meiselas in “Carnival stripper” è la sintesi: una donna che fotografa donne, che di mestiere fanno le spogliarelliste. Non le ritrae in pose da pin up, ma mentre svolgono il loro lavoro o si preparano. Ma le intervista anche, perché non vuole solo catturarne l’immagine, ma anche far sentire la loro voce.

Ma a restare nel cuore è lo sguardo e l’obiettivo di un uomo su due donne che soffrono. Jim Golberg “sta” accanto alla prostituta T.J. o alla nobildonna decaduta Vivianna de Blonville. Le guarda, ci parla, le ascolta.   E, alla fine,  accompagna i suoi scatti con le frasi da loro pronunciate. Una fotografia “umana”, come quella di Valerio Bispuri o Sebastio Salgado.

L’ultima sezione si intitola “Storie della fine” (Stories about endings) e riguarda il periodo storico dal 1990 ai giorni nostri.

Nella terza sezione, vediamo come all’interno della Magnum Photos, dagli anni ’90 in poi, gli artisti sono più numerosi dei reporter. La fotografia stessa sembra diventare sempre più arte e sempre meno giornalismo e testimonianza della realtà.

Con alcune pregevoli eccezioni come Paolo Pellegrin. Con la serie “Mar Mediterraneo” del 2015, documenta il soccorso dei migranti da parte di Medici Senza Frontiere. Qui, però, è esposto un polittico di onde marine di notte. In quelle immagini il mare fa paura. È il mare che può porre fine a qualsiasi viaggio.

Ma troviamo anche il “Rochester Project – Postcards from America”, con cui diversi fotografi Magnum hanno documentato una fase critica della storia della fotografia. Nel 2012, infatti, la società Eastman Kodak, che produceva pellicole, dichiarò bancarotta. Non è riuscita a tenere il passo con la rivoluzione digitale. Questi fotografi documentano la dismissione della fabbrica nella città di Rochester e il drammatico impatto sui suoi cittadini. Questo progetto fotografico è stato un’azione di resistenza.

“Magnum Manifesto” non è priva di difetti, ma è comunque come un negozio di caramelle per chi ama la fotografia

L’allestimento di “Magnum Manifesto” non è dei migliori. In primo luogo, il gruppo di fotografie in piccolo formato che apre ogni sezione è suggestivo, ma le immagini sono numerate alla rinfusa. Quindi, i visitatori sono costretti ad una ricerca confusa tra le foto per abbinarle alle didascalie riportate nei fogli a disposizione dei visitatori. I fogli stessi sono insufficienti, soprattutto nelle giornate di maggior afflusso.

In secondo luogo, è interessante ma non convincente l’idea di mostrare, in video, delle mani che sfogliano i cataloghi o i libri fotografici. È un espediente per mostrare il lavoro di molti più fotografi, ma risulta a nostro parere noioso e freddo.

Nonostante questi difetti di allestimento, “Magnum Manifesto” è una mostra che riesce ad emozionare e che sicuramente gli amanti della fotografia non possono perdersi. Non fosse altro che per innamorarsi di un fotografo o di una fotografa ancora sconosciuti, tra i 75 in mostra.

Stefania Fiducia

Stefania Fiducia
Splendida quarantenne aspirante alla leggerezza pensosa. Giurista per antica passione, avvocatessa per destino, combatto la noia e cerco la bellezza nei film, nella musica e in ogni altra forma d'arte.

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