Sono stati 65 mila i visitatori della mostra di apertura del Centro Pecci di Prato.
C’è già chi lo chiama “effetto Pecci”, parafrasando l’”effetto Guggenheim”, che è stato in grado di posizionare Bilbao nella mappa turistica di tanti viaggiatori negli anni novanta.
Il Centro Pecci di Prato potrebbe essere riuscito a replicare la magia, almeno questo suggeriscono i numeri relativi alla mostra inaugurale dell’apertura della nuova ala del museo progettata da Maurice Nio. Sono stati 65 mila i visitatori della mostra “La fine del mondo”, curata dal direttore del Centro Pecci Fabio Cavallucci, che dal 16 ottobre 2016 al 17 marzo hanno visitato la mostra.
Cinque mesi di attività intensa, con oltre 170 eventi collaterali, performance, conferenze, proiezioni cinematografiche e laboratori e un orario di apertura fino a tarda sera. Difficile dire quale sia stato l’elemento vincente, che ha portato tanti visitatori dalla Toscana ma anche da tutta Italia a Prato per visitare la mostra. Sicuramente ha suscitato una grande curiosità la futuristica navicella spaziale disegnata da Nio, con tanto di antenna per intercettare le nuove tendenze, che ha portato con sé una mostra dal titolo apocalittico come “La fine del mondo”.
Una mostra intelligente, ben costruita, non troppo complicata e anche un po’ angosciante, che ti fa uscire con una sensazione di disagio rispetto all’epoca in cui viviamo. Alla fine, però, ogni visitatore, grande o piccolo, ha potuto portare a casa un paio di cose sulle quali riflettere, ognuno seguendo la propria sensibilità.
In tanti hanno amato il tunnel creato dalle enormi radici di Transarquitetonica, di Henrique Oliveira, o i 99 lupi di Cai Guo Qiang (due opere con record di selfie dei visitatori, perché oggi le mostre sono anche questo). Qualcuno avrà apprezzato il Black lake di Bijork oppure “La classe morta” di Tadeusz Kantor. E non è poco, soprattutto se teniamo conto che stiamo parlando di arte contemporanea, che in pochi conoscono e apprezzano e che in troppi si vantano di non conoscere e apprezzare.
A Prato questa era una scommessa ancora più complicata da vincere, perché la città negli anni non ha mai mostrato di amare particolarmente il proprio museo. Eppure il Centro Pecci nella sua storia trentennale ha ospitato artisti importanti: Robert Mapplethorpe, Ives Klein, Nobuyoshi Araky, solo per citarne alcuni. Ma passati gli anni delle star dell’arte, poi è seguito un periodo più complicato, che non ha permesso al centro di instaurare un dialogo con la città.
Forse “La fine del mondo” è riuscita in un piccolo miracolo, è riuscita a far diventare il centro uno spazio integrato nella città. Un risultato poco scontato, che adesso dovrà essere consolidato. Parlare di “effetto Pecci” potrebbe essere prematuro, anche perché Prato non è Bilbao. Bilbao è diventato il paradigma di come una città industriale in un momento di crisi si possa rigenerare puntando sull’architettura.
Le assonanze con Prato non mancano: la crisi del distretto industriale, la mancanza di attrattività turistica a causa della vicinanza con città più importanti. Ma a Prato ci sono grandi progetti in cantiere: un nuovo parco, un centro storico che punta sempre più sul turismo. A Bilbao il rilancio della città ha puntato sull’installazione di un unico edificio, che ha fatto da richiamo e ha strappato la città all’anonimato. A Prato il Centro Pecci non potrà mai essere considerato l’attrazione principale, perché la città è immersa in una storia che non è solo contemporanea.
E poi ci sono delle incognite sul futuro della struttura. Il direttore Fabio Cavallucci è in scadenza e il Cda del Centro ha annunciato un bando internazionale per individuare il suo successore. Intanto è in preparazione una nuova mostra, che sarà inaugurata l’8 aprile, intitolata “Dalla caverna alla luna” e curata da Stefano Pezzato, che includerà le opere di 60 artisti selezionati dall’imponente collezione permanente del museo.
Ci saranno alcune opere importanti come la Caverna dell’antimateria di Pinot Gallizio e la Luna di Fabio Mauri, inserite in un percorso visionario che rappresenta una riflessione sul nostro tempo. A fine aprile sarà poi la volta della prima personale di Jérôme Bel, il coreografo francese protagonista della “non danza”. Un programma intenso, in attesa del nuovo direttore, che dovrebbe essere individuato entro la fine dell’anno.
Solo i risultati dei prossimi mesi potranno confermare se esiste davvero un “effetto Pecci”. Di sicuro “La fine del mondo” ha infranto un dogma: l’arte contemporanea non è un passatempo per pochi.
Silvia Gambi