Sono passai ben otto anni da Un Gelido Inverno – e sul perché una regista donna non riesca subito a fare un film ci sarebbe da aprire parentesi infinite – eppure la poetica di Debra Granik è ancora tutta lì. Intatta, riconoscibile, semmai ancora più forte.
Passiamo dalle fredde e scostanti montagne di Un Gelido Inverno, tra le quali i paesaggi rurali erano abissi senza fondo, alle verdi foreste vitali di Senza Lasciare Traccia. I due film, idealmente, sembrano gemelli: ancora la natura a dominare, ancora una adolescente protagonista, ancora una atipica coming of age story. Ancora, soprattutto, il brusco diventare adulti dovuto alle circostanze esterne.
C’è una differenza sostanziale, però, tra i due film. Se in quello del 2010 trionfava il cinismo e la durezza, con cui vedevamo sbocciare il talento di Jennifer Lawrence, ma la vedevamo sbocciare sanguinante e tra le sue urla, stavolta Senza Lasciare Traccia sceglie un approccio più delicato. Anche più asciutto, se vogliamo, quasi documentaristico nel ritrarre la vita fuori dalla società comune. Ma mai distaccato, perché costruisce un sentimento pian piano, fino all’inevitabile esplosione finale.
I paragoni col successo di due anni fa di Captain Fantastic sono chiari, nella trama. Anche qui abbiamo un padre che ha tolto la figlia dalla vita cittadini per farla vivere in mezzo alla natura, con i mezzi offerti dalla natura. I motivi dietro tale scelta sono ovviamente differenti tra i due, così come lo stile e la finalità. Qui Senza Lasciare Traccia cerca il realismo, e non è tanto la cattiveria del mondo ad essere il vero antagonista della storia – come dimostra il reinserimento piacevole nella società – quanto invece pare essere l’amore paterno. Un bel paradosso.
Se proprio vogliamo trovare un tema a Senza Lasciare Traccia, è il troppo amore. Quanto l’eccessiva protezione verso le persone che amiamo, spesso, ci renda ciechi, egoisti, e crei più danni che altro. Un film che riesce a mostrarci sia quanto le persone hanno bisogno degli altri, ma anche quanto talvolta non ne hanno bisogno.
Con compassione, senza alcun momento melenso, il film mostra un bellissimo seppur doloroso rapporto padre-figlia. Un rapporto essenziale e universale che diventa, nel suo cuore, simbolo della necessità di trovare un modo per andare avanti. Quello della Granik è un cinema di sopravvivenza, un cinema che getta una luce necessaria sugli ultimi, sugli emarginati, sulle comunità che vivono ai bordi del nostro quotidiano. Lo era Un Gelido Inverno, lo è anche questo film.
Un cinema di rara immediatezza nella sua lampante semplicità, che più si fa ricco di sentimenti e sensazioni, nutrendosi degli elementi della natura che mostra, più diventa profondo e dirompente. Capace di non prendere posizioni, di non dare giudizi, di non indirizzare i sentimenti: un cinema umano, nel vero senso del termine.
.
Emanuele D’Aniello