Ma voi le avete mai viste le pattinatrici al di fuori dei sorrisi delle gare ufficiali?
Nessuna grazia, nonostante ciò che traspare dalle loro movenze sul giacchio. Solo urla, lividi, graffi, gambe gonfie, a volte ferite ancora fresche. E allenamenti durissimi, metodi dittatoriali, una competizione sfrenata psicologicamente faticosa da sopportare per gli adulti, figuriamoci per ragazzine che prendono i primi pattini in mano a meno di dieci anni. E lo stesso si può dire delle ballerine o della ginnastica artistica.
Un mondo brutto quella della competizione sportiva oltre ogni livello. Un mondo sgradevole perfettamente incapsulato dallo stile di I, Tonya: energico, cinico, frizzante, spietato, corrosivo, ironico, tragico, acido. Ecco, probabilmente quest’ultimo è l’aggettivo più azzeccato. I, Tonya è un film acidissimo, che se ne frega di convenzioni (anche narrative) e del politically correct per capire e sviscerare il marcio che c’è dietro l’importanza (falsa) di risultare sempre i numero uno. La forma (posticcia) di risultare perfetti all’esterno. Tra canzoni senza soluzioni continuità, rotture della quarta parete, “fuck” a più non posso e violenza reale, il film ci getta addosso una grossa secchiata di disagio. Senza pudore (fasullo). Sempre a ritmo indiavolato.
I, Tonya è esilarante, non nega mai dosi di risate e quell’assurdo tipico del genere grottesco che gioca col reale. I, Tonya è anche nerissimo, perché insiste come un martello sugli abusi, fisici e psicologici, e sull’infinità solitudine delle persone nonostante possa toccare la fama. E poi I, Tonya è dannatamente realistico, audace nell’esplorare quell’America per molti popolata da bifolchi ma che, volenti o no, ha le chiavi del sentore popolare.
In fin dei conti, Tonya Harding voleva solo essere la migliore. Anzi, Tonya Harding voleva solo essere amata.
Il succo della questione è tutto qui. Questa pattinatrice, pur essendo la sua storia poco nota fuori dai confini americani, negli anni ’90 è stato un simbolo di tutto ciò che andava male nella società americana, e forse non meritava tale ruolo. Circondata da macchiette, figlia della provincia americana più rozza, a contatto con un mondo in cui ci sono dei giudici che votano la forma esteriore, Tonya Harding è in realtà una ragazza sola costretta dalla vita a reagire con i denti. Il merito del film, e dell’interpretazione clamorosa di Margot Robbie, è quello di giocare con le sfumature: empatica ma non per forza simpatica, Tonya è spesso, anche nel medesimo momento, vittima e carnefice delle stesse situazioni.
Il mondo dopotutto ama più i cattivi degli eroi, e questa battuta del film è verissima. Questo percorso lo sceglie Tonya, appunto, ma è ereditato dalla madre. Lei volontariamente accetta il suo ruolo di mostro solo per sostituire la figlia con una macchina perfetta. La caustica e gigantesca prova di Allisson Janney dipinge una donna crudele ma sempre compita, mai vistosa, che non ha nulla da invidiare ai grandi villain cinematografici che tutti conoscono.
Questo mockumentary pienamente consapevole di sé, con battute e continui rimandi al proposito, non sbaglia mai a capire il tono adatto. I, Tonya è una dark comedy, ma a tutti gli effetti una tragedia sull’essenza dell’orgoglio umano, e su come questo venga imboccato dalla società circostante. Si può accettare pienamente il ruolo di cattivo, ma poi mollarlo è difficile. Possiamo riderne, e in questo film lo facciamo tanto, ma alla fine è la vita a ridere più di tutti.
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Emanuele D’Aniello
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