“Hiroshima mon amour”: la decostruzione della memoria

hiroshima mon amour alain resnais recensione del film

Tra qualche anno io mi ricorderò di te come dell’oblio dell’amore stesso, io penserò a questa storia come all’orrore dell’oblio: lo so già

Hiroshima mon amour

Titolo originale: Hiroshima mon amour
Regia: Alain Resnais
Soggetto e sceneggiatura: Marguerite Duras
Cast principale: Emmanuelle Riva, Eiji Okada
Nazione: Francia, Giappone
Anno: 1959

Il cinema moderno di Alain Resnais

È un’indagine dolorosa quella di Alain Resnais, il manifesto di un’epoca e di un modo di fare cinema, tutto giocato sulla scomposizione del Tempo, sul personaggio-uomo e sull’uomo come pensiero, flusso oscillante di materia, affezioni, inganni. Inutile prescindere da Deleuze e dalla sua acuta – insuperabile – diagnosi ‘modernista’, capace di cogliere in Resnais l’inventore di nuove opere, riassumibili nell’immagine-tempo in opposizione al cinema classico, imperniato – come dimostra Ejzenstejn – sull’assimilazione tra ambiente e figure, in un’ottica chiara, realista: univocamente percepibile. A monte c’è Henri Bergson, il concetto di durée e, soprattutto, la sua teoria della percezione, che in Materia e memoria (1959) abrade i confini, il fondamento di ogni dualità.

L’antica scissione immagine/movimento è infatti superata nel flusso ottico-dinamico, tanto cinematografico da prestarsi alla trasposizione, secondo l’idea che non esistono «cose né coscienze ma soltanto immagini viventi che agiscono e reagiscono le une sulle altre»[1]. È un dato fondamentale, attestante il piano d’immanenza in cui tutto si sovrappone, interagisce, si (auto)alimenta. Non più dunque una realtà ‘fotografata’, riprodotta, bensì un insieme di stimoli, flash, immagini legate a «situazioni ottiche e sonore ‘pure’»[2], in cui le coordinate spazio-temporali si sgretolano, e il vero è puntellato di lacune, di oscillazioni più o meno rapsodiche.

Immagine e tempo in Hiroshima mon amour

Siffatto orizzonte non può che fornire una chiave epistemologica, laddove il reale diffratto è porta d’accesso a una comprensione totale. Citando il romanticismo, Deleuze parla di un’ottica ‘visionaria’, della necessità «di cogliere l’intollerabile o l’insopportabile» al fine di «fare della visione pura un mezzo di conoscenza e d’azione»[3], come se fosse ormai impossibile fidarsi dell’oggi translucido, delle categorie predeterminate e per questo vacue. È quanto accade in Hiroshima mon amour, opera cerebrale e ‘liminare’, edificata sulla coalescenza di notte e giorno, di realtà e visione.

Tutto, nel film in questione, rivela l’assimilazione dei principi bergsoniani, sovente integrati ai moduli della Recherche, con quell’idea di memoria che non è ricordo né ‘traccia’ bensì – ancora una volta – dispositivo mobile. Si tratta, come è ovvio, di fare i conti con un tempo non cronologico, svincolato dai dati fattuali e dall’idea – conciliante – di qualunque linearità. Per Resnais e Bergson il passato coesiste col presente anzi, a ben vedere, è esso stesso un ‘antico presente’. Tutto si compenetra secondo un rapporto osmotico ed è per questo che Hiroshima mon amour non si accontenta dei flashback (di fatto rarissimi) ma immerge i suoi personaggi in un brodo memoriale, in cui tutte le facoltà del pensiero risultano sollecitate.

Due luoghi, una (doppia) memoria

La vicenda è intensa, dolorosissima, capace di mescidare amore e disgrazia, la forza della passione contro il dramma atomico. Anche qui, però, si tratta compresenza. L’incontro fra un’attrice francese (Emmanuelle Riva) e un architetto giapponese (Eiji Okada) si muove su falde di realtà oscillanti, tempestate di ricordi, ri-costruzioni, dimenticanze, corrispondenze. Portatori ciascuno di una propria memoria, essi vivono un ‘oggi’ che è estraneità e integrazione: due le città sullo sfondo, due le zone di un passato tragicamente permanente. Hiroshima e Nevers – luoghi dell’anima e dello strazio – si alternano nell’opera come frammenti di oblio, resi confusi e ancor più coincidenti dall’interferenza degli elementi, come il fiume giapponese e le banchine della Loira, il neon delle strade e i riverberi della provincia.

Il primo quarto d’ora ha la parvenza del documentario, le voci fuori campo che discutono della bomba, con le immagini dello scoppio e la conseguente deformazione, i numeri che svaniscono davanti ai corpi martoriati. In abbrivio – e ancora dopo, per ellissi – l’amplesso dei due amanti decostruisce l’intento ‘storico’: al centro c’è la carne, l’essere, la coincidenza speculare che va al di là del visibile. I corpi puliti, via via coperti di cenere, recano tracce morali del medesimo dramma: lui, «completamente giapponese», è un sopravvissuto che ha Hiroshima negli occhi; lei, fuggita a Parigi, reca i segni del mascheramento, chiede di essere divorata, deformata, al fine di espellere la tossicità – di obliare, mediante un’altra memoria, la propria intima, terribile anamnesi.

Dal dramma alla catarsi

Ecco le mani, dunque, le unghie conficcate nella spalla di lui, quasi a simboleggiare l’appropriazione, il desiderio di essere altro toccando l’Altro, ghermendo – insieme a questo – il rimosso e l’indicibile. Tante le sequenze ‘visionarie’, in cui il recupero memoriale (laddove possibile, e pur sempre manchevole) funge da occasione gnostica; si procede per sovrapposizioni, minimi dettagli che cancellano lo spazio-tempo: un braccio, uno sguardo, una voce. E poi i pronomi, i tempi verbali, ‘tu’ che diventa ‘lui’ ed è presente e passato insieme. Scopriamo, in un crescendo onirico, che l’architetto evoca i tratti di un’antica passione, quella per un soldato tedesco ucciso a Nevers. I piani si alternano, deflagrano in un continuum di spazi e generi differenti [4], dove l’inconciliabilità dispone il terreno alla ri-costruzione.

«Tu non hai visto niente a Hiroshima» ripete ossessivamente lui, eppure è mediante quello sguardo che anch’egli ricorda, e rammenta soprattutto quanto è terribile dimenticare. Seduti al bar dove avviene il transfert, lui è oggetto e soggetto di una memoria involontaria, traslata – appunto – e pertanto ‘devastante’. È così che entrambi vedono, cogliendo infine l’intollerabile; con i modi letterari di Marguerite Duras («Io ti incontro e mi ricordo di te. Chi sei tu? Tu mi uccidi. Tu mi fai del bene») si srotola il racconto di un amore impossibile, marchiato, “infame”, pagato a caro prezzo. Nel luogo dell’oblio e della desolazione, dove ogni cosa è stata spazzata via in nove secondi, lui e lei ricordano. Alieni gli uni agli altri, nella parentesi di uno spazio vuoto, si aprono alla catarsi: a Hiroshima torna a crescere un fiore, mentre Nevers, «storia da quattro soldi», è consegnata all’oblio.

Ginevra Amadio

Tre motivi per vedere il film

  • – La folgorante overture
    – I volti dolenti, perfetti, di Emmanuelle Riva e Eiji Okada
    – Il ‘film di Never’, un lungo flashback impuro.

Quando vedere il film

Non è un’opere semplice, immediata o riposante. Consiglio il giusto tempo, e una certa predisposizione.

Note

[1] Si veda a proposito la disamina, chiara e approfondita, condotta da Katia Rossi in Hiroshima mon Amour: l’architettura della memoria in Resnais, in “Kykéio: semestrale di idee in discussione”, 4, Firenze, Firenze University Press, novembre 2000.
[2] G. Deleuze, L’image-mouvement. Cinéma 1, Paris, Minuit, 1983.
[3] ID, L’image-temps. Cinéma 2, Paris, Minuit, 1985.
[4] K. Rossi, Hiroshima mon Amour, cit.

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Giornalista pubblicista, laureata in Lettere e Filologia Moderna. Lettrice seriale, amante irrecuperabile del cinema italiano e francese.

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